Animali di quiete
- Accorciamo le distanze

- 26 mag 2021
- Tempo di lettura: 5 min

Dal dadirri al deep listening, le pratiche di ascolto profondo per indagare la realtà
Qui si levò un albero. O puro tendere in alto! Orfeo canta! O alto albero nell’orecchio! E tutto tacque. Eppure in quel tacere avanzò nuovo inizio, cenno e mutamento.
Animali di quiete uscirono dal chiaro bosco diradato, da tane e da cespugli; e si comprese che non per astuzia né per paura erano in sé sommessi,
ma per ascolto. Ruggito, grido, bramito parve fievole nel loro cuore. E là dove non c’era che una capanna per accoglierlo,
un nascondiglio alle più oscure brame,
con un accesso dagli stipiti tremanti, –
qui tu creasti per loro un tempio nell’udito.
La pandemia ha portato da subito con sè silenzio, un silenzio opalescente, che sembrava cambiare in base a microvariazioni indefinibili. Un silenzio di estremo sollievo, un silenzio funebre, un silenzio arido. Di fatto, mai il tipo di silenzio che descrive Rilke nel sonetto, il silenzio da venerare nel tempio dell’orecchio, ma una quiete di altro genere, che lui stesso in una lettera descrive come «un pezzo di reale silenzio, di silenzio profano, un vuoto troppo vero, come quello di un cassetto o di un portamonete».
Molte persone, proprio all’interno di questo silenzio crudo e netto, hanno intravisto la crepa per indagare un ascolto d’altro genere, più consapevole.
Nella pratica Zen si dice che ascoltare non è una capacità naturale dell’uomo, ma una facoltà che si acquisisce con la pratica e la volontà, e sempre più strade e più coscienze sembrano aprirsi verso questo sviluppo. Ma forse è importante non sottendere la domanda principale: perché creare un “tempio nell’udito”? A sottolineare l’importanza dell’ascolto rispetto alla percezione del reale è stato Joachim-Ernst Berendt nel libro The World is Sound, scritto all’inizio degli anni ‘80, che raccoglie una serie di riflessioni che stavano maturando da qualche decennio. Secondo Berendt, l’ascolto conduce alla lucidità, e si differenzia dalla vista perché il suono, pur essendo materiale eterico, sfuggente, porta dentro di sé informazioni estremamente precise. Una voce viaggia conservando al suo interno informazioni sull’organismo che l’ha emessa, un suono di acqua gocciolante in una caverna porta in sé la struttura dello spazio, e attraverso i riverberi può raccontare con estrema esattezza le nicchie che lo circondano.
Molte musiciste e artisti della voce hanno messo al centro di alcune performance proprio questo aspetto del suono, dando un senso drammaturgico alla sovrapposizione tra composizione musicale e specificità dello spazio:La performer olandese Janneke van der Putten, per esempio, compone una partitura che si innalza come un’architettura invisibile, che si sovrappone e al tempo stesso contiene lo spazio che la circonda.
Meredith Monk, anni prima, aveva compiuto un’operazione simile in una torre, dove azioni musicali si intrecciavano su più livelli, sommando suoni provenienti da nicchie, dalle pareti, e da diverse altezze.
Oltre che ricostruire minuziosamente la realtà spaziale che ci circonda, le nostre orecchie sono così precise da saper identificare note, ovvero precisi rapporti matematici, un risultato impensabile per i nostri occhi, che classificano come “blu” un oceano di esperienze diverse, inutilmente definite da aggettivi, mai abbastanza specifici. È la meccanica stessa dell’occhio ad essere efficace ma imprecisa, offrendosi come perfetta metafora della modalità contemporanea del fare conoscenza del mondo. L’occhio infatti individua pochi punti in ciò che ha davanti, completando poi il resto per deduzione ed elaborando i dati ricevuti sulla base delle esperienze pregresse. Questa sua forma di analisi superficiale è forse ciò che comporta la maggior predisposizione dell’occhio all’illusione, all’inganno. Questo non può non far pensare ai fenomeni delle illusioni ottiche, che non trovano un corrispondente nelle orecchie, organo che molto difficilmente risulta fallibile nell’informarci su ciò che ci circonda. La vista è ciò che conduce Narciso alla sua morte prematura o che permette ad un insetto di ingannare il predatore mimetizzandosi sotto forma di ramoscello. A riprova di questa teoria, fa notare Berendt, si nota che nella quasi totalità delle lingue gran parte della terminologia che ha a che fare con l’insicurezza, l’imprecisione, arrivi dall’ambito lessicale collegato alla vista (per esempio in inglese si dice “It appears to me…” o “it looks as though…” oppure “I imagine… ”) .
Non credo sia un caso che in questo momento storico dove i “punti di vista” si accavallano, si scontrano, e creano sempre più solitudine, molte persone stiano riscoprendo l’atto dell’ascoltare per mantenersi permeabili all’Altro e rimanere ancorati alla realtà. Parlo di riscoprire perché le pratiche di ascolto profondo non sono una creazione recente, o di origine esclusivamente occidentale.
Un corrispondente viene definito col termine dadirri nelle lingue Ngan’gikurunggurr e Ngen’giwumirri tra gli aborigeni della regione del Daly River, 220 kilometri a sud di Darwin, in Australia. Dadirri viene definito così da Miriam-Rose Ungunmerr-Baumann, scrittrice aborigena: “Dadirri è un ascolto interno e profondo, e calma consapevolezza. Dadirri riconosce la primavera profonda che c’è dentro di noi. Noi la invochiamo e lei ci chiama. (...) È qualcosa di simile a ciò che voi chiamate “contemplazione”.
L’apertura all’ascolto, fondamentale per la cultura aborigena, non solo viene utilizzata come collante sociale, ma è la base dell’educazione e della trasmissione della conoscenza. Il sapere infatti viene trasmesso oralmente, quindi coloro che sviluppano meglio la capacità di imparare attraverso il suono hanno anche più possibilità di sviluppo. Attraverso l’importanza che viene data all’ascolto si può notare lo spazio che la cultura aborigena dà alla ricezione, un’azione associata al femminile e che viene considerata generatrice, al contrario della visione occidentale che le attribuisce una qualità passiva.
“Dadirri significa anche consapevolezza di dove vieni, perché sei qui, dove stai andando e a dove appartieni. Può essere usato come strumento per calmare la mente e insegna “la tranquilla immobilità e l’aspettare”.” aggiunge la Ungunmerr-Baumann, sottolineando una qualità verso la quale le circostanze attuali sembrano volerci accompagnare inesorabilmente.
Pauline Oliveros, compositrice americana di musica d’avanguardia, sottolinea spesso la grande differenza tra il sentire e l’ascoltare, ovvero tra l’azione che le nostre orecchie (e la nostra corteccia cerebrale) fanno meccanicamente, e la profonda presa di coscienza di ciò che si sta sentendo, il Dadirri.
In una score (partitura), chiamata Ear Piece pone tredici domande, di cui molte hanno a che fare con questa sostanziale differenza:

Nei testi sull’ascolto spesso si trovano una grande quantità di domande, una circostanza nient’affatto comune nei saggi, che tendono ad offrire più risposte. Spesso le score (partiture) che coinvolgono le orecchie, o qualsiasi altro tipo di ricezione del suono, invitano l’uditore a mettere in discussione, a non dare per scontato. Mettersi in discussione è il primo passo che si può fare verso un’autentica democratizzazione del pensiero, anche dal punto di vista sonoro e musicale, e l’ascolto profondo ci predispone ad una visione non gerarchica della realtà.
Pauline Oliveros nel suo libro “Deep listening, a composer’s sound practice” definisce il deep listening come “imparare ad espandere la percezione dei suoni per includere l’intero continuum spazio temporale del suono – andando incontro il più possibile alla vastità e alle complessità.” Il deep listening può essere facilmente confuso con una volontà di ritorno ai suoni naturali, un’ecologia sonora utopica e un po’ nostalgica, quando in realtà spinge a considerare tutti i suoni alla pari, da un punto di vista percettivo e di conseguenza anche compositivo.Cosa distingue veramente un suono ricordato, uno sognato e uno appena ascoltato? O un suono prodotto da un torrente da uno prodotto da un uomo?
Un ottimo esempio di questa “democratizzazione del suono” si trova nell’album Music For Church Cleaners di Aine O’Dwyer. In questo album Aine O’Dwyer lascia che i suoni dell’organo della Chiesa di St Mark a Islington, Londra, si incontrino in una continua danza con i suoni degli addetti alle pulizie, i loro spazzoloni e i loro aspirapolveri. Come fa notare Salomè Voegelin nel saggio Unstable Contacts, “una volta che il focus non è sulla musica come artefatto culturale, delimitato dalla sua valutazione disciplinare, tutti i rapporti (tra i suoni) iniziano a suonare” e continua: “Ascoltando l’album come in una distesa voluminosa, sento connessioni e contatti instabili piuttosto che musica, e abito una sfera condivisa di suoni indivisibili, nei quali pratico l’esistere in accordo all’ascoltare in un mondo connesso.”
Cercando di ascoltare in un mondo connesso, rimaniamo animali di quiete, non in attesa di una risposta oracolare riguardo al futuro che ci attende, ma perché “in quel tacere avanzò nuovo inizio, cenno e mutamento.”
Autore: Lola Posani


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