BUEN VIVIR
- Accorciamo le distanze

- 12 mag 2021
- Tempo di lettura: 6 min

L’approccio ecocentrico alla vita in Sud America
Il ‘Buen vivir’ è il precetto fondamentale di quella che si può definire la filosofia di vita dei diversi popoli andini del Sud America. La traduzione letterale può essere assai fuorviante: ‘il buon vivere’ o ‘il vivere bene’, riallacciandosi sempre a una concezione occidentale, non corrisponde mai al concetto indigeno.
Dagli antichi greci ereditiamo una concezione antropocentrica, rendendo così ‘il vivere bene’ il raggiungimento di una realizzazione dell’individuo limitata alla sua sola dimensione di essere umano, molto spesso una in chiave materialistica. Tale concezione ha sempre portato a trascurare, nel corso della storia, la tutela dell’ambiente, percepita come ostacolo allo sviluppo economico. Soltanto negli anni ‘60 cominciano a diffondersi tesi, movimenti, testi legislativi a favore dell’ambiente e solo negli anni ‘70-’80 ci si inizia a rendere conto che è necessario coniugare le due tematiche nella cosiddetta green economy.
Tutt’altra accezione ha il buen vivir per le popolazioni indigene che abitano ancora oggi la catena delle Ande: con esso si intende una vita in armonia con la collettività e con la natura. Ponendo come interesse non l’individuo, bensì la natura, il buen vivir si configura come una visione ecocentrica, nella quale l’ambiente che accoglie la comunità deve essere rispettato e tutelato. L’umanità, in breve, perde la sua centralità rispetto ad altre dimensioni come l’ambiente, a differenza della definizione occidentale. Da ciò, noi comprendiamo l’importanza delle loro terre ancestrali, cominciamo a capire perché Pocahontas piange per gli alberi tagliati, perché in Avatar - quei puffi cresciuti - ci tengono così tanto all’albero gigante. Ma come mai l’ambiente è così importante? Queste popolazioni, nonostante siano tutte formalmente legate alla chiesa cattolica sin dal tempo dei conquistadores, mantengono elementi culturali pagani rimandabili alla categoria delle religioni animiste: un insieme di culti in cui gli oggetti materiali e gli esseri viventi sono considerati sacri e ospitano la divinità. La loro è una religione concreta, con una prospettiva quasi panteistica: è proprio dalla mancanza totale di una trascendenza del divino, che consegue l’essenziale tutela della terra, dell’ambiente in cui la comunità vive.
Con il colonialismo spagnolo e portoghese e la conseguente formazione dei vari stati nazionali del Sud America, la visione ecocentrica del buen vivir viene brutalmente repressa. Le varie terre ancestrali appartengono non più della comunità ma allo stato colonizzatore, la religione da seguire diventa quella cattolica e la componente indigena si rifugia o viene confinata in poche aree incontaminate, sia per volere dello stato sia per volere degli stessi popoli indigeni alla ricerca di protezione. Da qui parte una lunga e sofferente epopea, attualmente in corso, caratterizzata da una forte discriminazione delle comunità indigene e della loro cultura. Diventano così vittime prima delle colonie, poi dello stato, come nei casi di disboscamento, molte volte causato dallo sfruttamento di risorse naturali o dall’avanzare del cemento. Inoltre, nel corso della storia, l’indigeno si è trovato molto spesso al centro di guerriglie e lotte interne, sia come componente civile che come guerrigliero, molto spesso costretto all’arruolamento dai movimenti ribelli. Tutto ciò ha portato a numerosi episodi drammatici, con stragi e stermini sia da parte dello stato sia di gruppi paramilitari.
Un caso esemplificativo si ha in Perù, con il conflitto interno che vide protagonista la formazione guerrigliera del Sendero Luminoso nella zona delle Ande. L’organizzazione negli anni ‘80 si rivela estremamente violenta, adottando la pratica dell’arruolamento forzato soprattutto verso i contadini, la maggior parte dei quali di etnia indigena. Questo conflitto genera livelli di estrema violenza, che colpisce principalmente i contadini andini, vittime delle violenze sia dallo stato sia dei guerriglieri. Villaggi di contadini e comunità indigene sono l’effetto collaterale di questi scontri tra le istituzioni e i ribelli. Da non dimenticare infine che il Sendero Luminoso si macchiò perfino dell’arruolamento di bambini fra le schiere dei guerriglieri. Molto interessante è il film Paloma de papel che racconta proprio di questo aspetto.
Solo con il nuovo millennio, che coincide anche con la fine dell’ondata autoritaria che aveva attraversato il continente, questi popoli ottengono non solo i primi diritti riguardanti la persona (diritti civili e politici), ma anche le prime forme di tutela della propria cultura e delle terre ancestrali. I paesi in cui la tematica ha avuto maggior rilievo sono quelli in cui vi è la più alta presenza di popoli indigeni, ovvero l’Ecuador e la Bolivia.
Questi due paesi sono stati i primi ad abbracciare giuridicamente la prospettiva ecocentrica che fonda la loro visione del mondo, e sono riusciti a conciliare i diritti della natura con la giurisprudenza. Una teoria che permette un’innovativa conciliazione dei due campi è contenuta nell’articolo del 1972 del giovane giurista Christopher Stone: ‘Should trees have standing?’ (Gli alberi potrebbero agire in giudizio?). Stone concepisce la natura come una pluralità di soggetti giuridici titolari di diritti, ricordando come, nel corso dei secoli, quest’ultimi si siano estesi a fasce sempre più ampie di persone fisiche e giuridiche. Nonostante questi particolari soggetti - gli alberi - non possano farsi valere in giudizio, ciò non può comportare, nella tesi di Stone, la mancanza di tutela a loro favore. Egli quindi afferma nella sua teoria che un tutore ha la possibilità di agire per vie legali per conto della natura, portatrice di interessi propri. Essa, in questo modo, potrebbe farsi così riconoscere un danno dal giudice e quindi beneficiare di un eventuale risarcimento, che permetta il ripristino della situazione ambientale precedente alla violazione.
La teoria di Stone viene introdotta nel testo costituzionale dell’Ecuador del 2008 all’articolo 71, dove sono enunciati i principali diritti della natura: rispetto integrale di esistenza e mantenimento e rigenerazione dei suoi cicli vitali. Il secondo comma è molto interessante, poiché afferma che le violazioni o ingiustizie subite da Madre Natura possono essere fatte valere sia da un giudice sia da qualsiasi altra persona, richiedendo alle autorità pubbliche la piena applicazione dei diritti. Viene aggiunto un ulteriore diritto, quello di ripristino, all’articolo 72, che comporta il reintegro del sistema di vita danneggiato e inquinato per l’opera di attività umane o industriali.
La Bolivia, già nel 2005, con la prima vittoria elettorale di Evo Morales, attraversa un cambiamento. Infatti, nonostante sia un paese a maggioranza indigena controllato da una classe dirigente creola (perché white lives are better) elegge il primo presidente di etnia Aymara, il quale riconosce agli indigeni diritti, libertà culturale e la proprietà sulle loro terre ancestrali, dando alle comunità una certa autonomia anche a livello politico. Quindi la Bolivia, in linea teorica, dovrebbe per legge restituire la proprietà di queste terre ancestrali alle comunità indigene, proprietà che si estende anche al sottosuolo (comprese le materie presenti come petrolio o risorse minerarie). Nei fatti, molte volte lo stato temporeggia, viola la proprietà o non richiede la consultazione obbligatoria della comunità proprio per il potenziale economico di queste terre. Nonostante ciò, nel 2010 si tiene proprio a Cochabamba, provincia natale di Morales e a maggioranza indigena, la “Conferenza mondiale dei popoli per la giustizia climatica e i diritti della Madre Terra”. I contenuti di quest’ultima vengono riproposti nello stesso anno all’interno di una legge e non nella costituzione, come era invece avvenuto in Ecuador. La Bolivia, non riconoscendo all’ambiente il concetto di soggetto giuridico, ha preferito un approccio meno radicale rispetto a quello scelto dall’Ecuador, dimostrando che, nonostante i grandi passi avanti, fatica ad abbandonare completamente una concezione antropocentrica.
Attualmente non si sa se, effettivamente, la prospettiva delle persone sia cambiata, ma soprattutto se sia cambiata quella delle forze politiche ed economiche In Bolivia quel burlone di Morales si è dimostrato una figura abbastanza controversa: un caso esemplificativo è quello di Tipnis, parco naturale e riserva indigena. Nel 2011 il presidente decise di costruire un’autostrada proprio su quella riserva, suscitando molte critiche sia di tipo ecologico che giuridico, considerato che le comunità indigene non erano state neanche consultate a proposito (ad oggi la costruzione è ferma).
In Ecuador, la natura e le riserve sono costantemente minacciate dallo sfruttamento delle materie prime. Basti pensare al caso del parco Yasunì, un’altra riserva indigena la cui superficie è stata nel tempo notevolmente ridotta, poiché si trova in corrispondenza di ricchi giacimenti di petrolio e altre risorse naturali che fanno gola allo stato.
Certamente, comunque, questo nuovo approccio rappresenta un grande passo avanti per la tutela dell’ambiente. Questi due paesi sono riusciti a inserire nell’agenda politica e nella produzione legislativa un cambiamento radicale riguardo questa tematica fondamentale, nonostante possa risultare a volte controproducente per lo stato nel breve periodo, soprattutto a livello economico. Questo “sacrificio” dimostra che c’è una volontà, seppur remota, di cambiamento. Sono piccoli segnali, ma propizi, per un cambio di prospettiva che ponga al centro delle priorità umane non solo l’essere umano stesso, ma anche la natura.
Autore: Alessandro Matrosanti


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