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Centimetri di resistenza




Mahsa Amini è morta da due mesi e in Italia è caduta solo qualche ciocca di capelli in diretta Tv. Certo, nessuno si aspetta una corsa in massa al primo volo per Teheran, ma in ogni tragedia la banalità trova il modo di infilarsi e banchettare. C’è chi si scopre femminista, chi si accorge che l’Iran è governato da un regime, chi crocifigge l’Islam e il velo perché contrari alla libertà femminile: nessuno si preoccupa di scavare un po' più in là della propria bacheca social e dissotterrare quel sesto senso che solo i più arditi corrono il rischio di allenare ogni tanto, vale a dire lo sguardo critico. E ce ne vorrebbe a palate, dato che all’uscita da una pandemia è scoppiata una guerra che ha causato una crisi energetica che ha aumentato il caro bollette che al mercato mio padre comprò. In cima alla pigna delle sventure è arrivato poi il delitto di Mahsa Amini, e con esso la protesta delle donne iraniane ha spostato i riflettori dal palcoscenico Europa al lontano Oriente, che ancora oggi molti di noi associano a cammelli, deserti, cose vecchie e disumanità. Forse, e dico forse, l’urgenza dell’epoca che, sventuratamente o meno, ci troviamo a vivere merita un grado diverso di consapevolezza: per restare a galla, abbiamo bisogno di andare a fondo. Uno dei pochi modi che conosco sta nel porsi una domanda e non sapere la risposta. Il trucco è tutto qui, e con esso la straordinaria bellezza dell’umano. Perché l’uomo, quando non sa, si attrezza per imparare, escogita strategie, penetra in profondità, cambia al cambiare delle sue ricchezze interiori. Nel mio caso, ho avuto un prode alleato, un oggetto ambiguo a metà tra un soprammobile agé e un pezzo di design degli interni: un libro. O meglio, un libro e chi l’ha scritto, perché leggere non è mai onanismo, ma sesso a due (o tre, dipende da quante mani sono coinvolte).


Nel lontano 2000, in placida terra francese, una sconosciuta illustratrice iraniana pubblica il primo dei quattro tomi di “Persepolis”, esploso poco più tardi come uno dei più straordinari successi editoriali internazionali. Non è un fumetto, non è un reportage, non è un romanzo né un’autobiografia: è tutto e nulla insieme. È la vita che, per comprendersi, ha bisogno di essere raccontata. Ce l’aveva ben chiaro Marjane Satrapi, perché era la sua pelle a portare i segni degli eventi raccontati, la sua memoria a trattenerne i drammi. Nel 1980, all’alba della rivoluzione islamica passata alla storia come “khomeinista”, dal nome dell’ayatollah che capeggiava i partiti d’ispirazione tradizionalista, Marjane di anni ne aveva solo dieci, e già scendeva in piazza a fianco dei genitori per gridare alla libertà, all’emancipazione femminile, alla giustizia. In quei giorni, tutto l’Iran era contro il suo sultano, Mohammed Reza, colpevole di aver venduto la sua terra agli avidi imprenditori petroliferi occidentali, perlopiù inglesi, e di averla trasformata in una brutta copia della moderna Europa: le donne erano obbligate a mostrarsi a capo scoperto, potevano contare su un’istruzione di grado universitario, sposarsi e divorziare a piacimento. Detta così, non era poi tanto male. Perché rovinare questa immagine da cartolina con una cosa sporca e caotica come una rivoluzione? La risposta, amici miei, non è soffiata dal vento, ma cantata dai dollari. Un’unica, tentacolare compagnia petrolifera, la Anglo-Iranian Oil Company, deteneva più della metà dei pozzi d’estrazione sul territorio iraniano, arricchendo a dismisura i pochi e affamando i molti. Non era servito a molto il tentativo del primo ministro Mossadeq di remare in direzione opposta: alla sua proposta di nazionalizzare l’industria petrolifera iraniana avevano risposto i servizi segreti britannici, con assist dei colleghi della Cia, esibendosi in un pregevole trucco di magia celebre come “Facciamo sparire Mossadeq”. Tanto di guadagnato per Reza, che in un colpo solo si trova un oppositore in meno e qualche spicciolo in più in tasca. La sua reputazione, però, inizia a calare quando le strade si riempiono di pattuglie della polizia segreta e il parlamento assomiglia a un bar di Bergamo quando gioca l’Atalanta. Si vocifera che il sultano abbia dimenticato l’identità della nazione iraniana e si faccia beffe delle sue gloriose radici, così profondamente legate alla tradizione islamica. Partiti e movimenti di orientamento islamista prendono coraggio e registrano sempre più adesioni, fino allo scoppiare delle prime proteste. Nelle piazze, nelle strade, dentro alle scuole e in mezzo ai cortili: non c’è un solo angolo che non si trasformi in uno spazio di resistenza e dissidenza. Le donne fanno fronte comune in schiere organizzate di militanti, e indossano l’hijab a simbolo della propria orgogliosa appartenenza alla tradizione islamica. A dare il fatidico giro di vite è l’arresto di Khomeini: in una manciata di settimane, l’insurrezione raggiunge il suo apice e fa tremare i vertici del regime, che mancano di eroismo ma non di pragmatismo. In breve, re e burattini se la danno a gambe.


Nessuno, in un momento di così umano entusiasmo, quello che viene dalla consapevolezza di tornare liberi, avrebbe pensato che in meno di un anno un'altra tirannia, forse peggiore della precedente, si sarebbe fatta strada fino allo scranno dei potenti. Sulla carta si tratta di una Repubblica, ma nei fatti si comporta come una teocrazia di ispirazione fondamentalista: le gerarchie religiose e politiche coincidono, il confine tra vita pubblica e privata è regolamentato da un sistema di norme e divieti che trae la sua sacralità dalle Scritture. O meglio, da chi interpreta le Scritture. Chi incolpa l’Islam, infatti, sbaglia bersaglio: è come se si biasimasse un regista perché il nostro amico appassionato di cinema ci dice che le inquadrature sono da sistemare. Può essere vero, ma si potrebbe ribattere con un “magari il senso della scelta del regista sta nell’effetto soggettivo che vuole comunicare”. Quando si ragiona sugli assoluti, si rischia di prendere assolute cantonate. I testi scritti hanno una vita propria, un proprio modo di respirare attraverso chi li legge e li tramanda, una propria, personalissima maniera di invecchiare. Tanto il Corano quanto la sua sorella maggiore, la Bibbia, hanno imboccato un percorso che li ha condotti incolumi alle soglie del terzo millennio, e non è cosa che si possa dire di tutti i libri. Su Dante, per esempio, pesano “solo” sette secoli e poco più, e si discute ancora sulle possibili interpretazioni di alcuni passi della Divina Commedia. Cosa ci impedisce di dare per scontato che i testi sacri si comportino in maniera diversa? Se qualche dio li ha dettati, avrebbe potuto suggerire un paio di note a margine. E invece, ogni frase è lasciata a noi, alla nostra coscienza o a quella di chi abbiamo delegato come tramite. Prendiamo l’Antico Testamento, per la precisione il Libro del Seracide, per gli amici Ecclesiaste. Al capitolo IX, versetto 10 si legge: «Ogni donna impudica sarà calpestata come sterco nella via». San Paolo non è da meno, quando nella Lettera agli Efesini se ne esce con «le donne siano soggette ai propri mariti come al Signore, perché il marito è il capo della donna come anche Cristo è il capo della Chiesa». Proviamo con la Lettera ai Corinti? Voilà: «Se una donna non vuole mettersi il velo, si tagli addirittura i capelli! Ma, se per una donna è vergognoso tagliarsi i capelli o essere rasata, si copra col velo. L’uomo invece, non deve velarsi il capo, essendo egli immagine e riflesso di Dio; mentre la donna è riflesso dell’uomo». Il premio per l’originalità va però a quel santo di Agostino, che nelle Confessioni fa una rivelazione a dir poco scioccante: «Le donne non dovrebbero essere illuminate od educate in nessun modo. Dovrebbero, in realtà, essere segregate, poiché sono loro la causa di orrende ed involontarie erezioni di uomini santi». Eppure, non mi sembra che si accusi il Cristianesimo di misoginia, salvo rare eccezioni. È vero, nel Corano non sono pochi i passi in cui viene sottolineata la presunta inferiorità femminile (la Sura IV fa da testimone: «Se le vostre donne avranno commesso azioni infami, confinate quelle donne in una casa senz’acqua né vitto finché non sopraggiunga la morte».). Una differenza, però, esiste, e sarebbe disonesto negarla. In Occidente le campagne in favore dei diritti femminili hanno condotto a conquiste imprescindibili, soprattutto grazie a un progressivo smarcamento dei poteri politici e delle società civili dai condizionamenti delle gerarchie religiose. Nell’Iran di Marjane Satrapi, come in quello odierno di Mahsa Amini, questo non è ancora avvenuto. Il terribile potere di stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato è ancora saldo nelle mani di pochi uomini, e la presa psicologica che essi esercitano sul resto della popolazione non accenna a diminuire. Eppure, non c’è spazio più rivoluzionario di un dettaglio. Mahsa Amini non ha sbraitato per le strade, non ha messo a ferro e fuoco la città, non si è spogliata nuda in moschea. Il velo ce l’aveva, ma non a regola d’arte: un’unica, insignificante ciocca di capelli ha smosso una protesta che dura da giorni. Ha parlato alle donne più di ogni altro gesto eclatante. E ora sono in migliaia a seguire l’esempio di Mahsa, e a osare addirittura di sperare in qualcosa di più.


La resistenza è un affare di pochi attimi, e di silenzi. Noi neanche immaginiamo quante donne stanno ora vestendosi per uscire in strada, combattute su quei centimetri di troppo che potrebbero costar loro la vita. Nel frastuono delle nostre dichiarazioni d’altruismo, non facciamo altro che giudicare chi piega la testa oggi per lottare ancora domani. Chi tace per non sprecare il valore delle parole dette al momento opportuno. Noi, i figli di Bella Ciao, non facciamo altro che umiliare chi vive la propria resistenza un centimetro alla volta.


 

Autore: Alessandro Ghidini




 
 
 

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