E il nome che diedi alle cose le rese vive
- Accorciamo le distanze
- 18 ago 2021
- Tempo di lettura: 11 min

Conversazione con Cristiano Sormani Valli, scrittore e poeta
Incontro Cristiano nella piazza della chiesa di Crespi d’Adda, piccolo paese in provincia di Bergamo,. Cristiano ha portato con sé pizza e un enorme termos di the per il nostro pomeriggio. L’ultima volta che ci siamo visti risale a due anni fa, a Santarcangelo di Romagna: un breve lasso di tempo costellato da lunghe passeggiate notturne e parole.
Il parco è deserto, solo un cane bianco e nero ci corre incontro come se ci conoscesse. Presto la conversazione è dominata da una grande assenza: quella di Franco Loi, da poco scomparso, di cui Cristiano era diventato amico negli ultimi anni. Fioccano gli aneddoti, gli episodi, e nella mia mente si tratteggia il ritratto caldo, umano, di una delle voci poetiche più luminose del Novecento italiano.
Prima di incamminarci, Cristiano vuole fumare una sigaretta. Cercando l’accendino nello zaino, trova anche: un pupazzo magnetico a forma di panda, delle chewing gum color fucsia, un minuscolo libro segreto confezionato da sua figlia e le fotocopie di una fiaba scritta da lui e destinata ai suoi piccoli allievi di scuola elementare. Ridiamo, e iniziando a chiacchierare, ci avviamo lungo un sentiero che ci porterà a “uno dei luoghi più belli della terra”.
Nella nota autobiografica che hai inserito in “#cicalio”, dici che sei nato e cresciuto in una discoteca. E’ una metafora?
No, è la realtà: mia madre e i miei due zii avevano una discoteca, si chiamava Puka, e dai 4 ai 14 anni sono vissuto lì, negli appartamenti sopra la sala da ballo. Contemporaneamente però frequentavo un collegio religioso. Devo dire che da allora la mia vita è rimasta la stessa: un po' grotta e un po' discoteca, e io un po’ eremita un po’ amante della folla. Vivendo nella discoteca ho incontrato un sacco di persone diverse: amanti dello ska, del glam, delle gare di ballo… C’era Camillo, per esempio, il buttafuori: un gigante. Suo padre, tu pensa, ammazzava a pugni i tori nelle cascine. Per dirti, una volta era uscito dalla sede un cancello di 7 metri, pesantissimo: è arrivato Camillo - e tlac - l’ha rimesso a posto. Vivere nella discoteca è stato un grande circo. E’ lì che ho iniziato a sviluppare quelle che chiamo “le mie 12 personalità": quella legata alla musica, grazie a mio zio, che faceva il dj, suonava la chitarra e che mi ha procurato il mio pianoforte e quella legata al teatro grazie a un altro zio, che faceva animazioni per i bambini e mi portava con sé a fare la parte del piccolo pagliaccio. A mia madre devo l'amore per le parole e per l'innocenza del mondo: lei scriveva poesia, da lei ho imparato a memoria Marinella di De Andrè. Cambiava sempre il testo, mi ha insegnato anche questo, il fare tue le cose degli altri. Mio nonno invece mi ha insegnato e leggere e andar per i boschi, la nonna la bellezza delle fiabe, che mi raccontava stringendomi alle sue tette giganti.
Mi è sempre piaciuto ascoltare i racconti degli altri. “Io sono un condominio”, per citare Ermanna Montanari: un condominio di tutti i racconti, le storie, le esperienze che ho ascoltato. Ho avuto la fortuna di essere molteplice, non avevo la famiglia canonica da cui imparare, ma tanti modi di essere al mondo. Essere stato parte di tante storie è stato un privilegio. Qual è stata la prima poesia che hai scritto? Non mi ricordo quale sia stata la prima. Ma fin da piccolo leggevo le poesie di mia madre e ascoltavo le canzoni dei grandi (De Andrè, De Gregori, Battisti), così per me la poesia è sempre stata strettamente collegata alla musicalità. In quinta elementare ho letto “Romeo e Giulietta” e ho capito che volevo diventare o Shakespeare o un attore. Una volta ero con mia madre a Milano, in un negozio di porcellane che lei amava molto. La negoziante mi chiese che cosa desiderassi fare da grande e io risposi “l’attore e lo scrittore”; a quel punto mia madre mi chiese di recitare brani di Romeo e Giulietta, che sapevo a memoria. La commerciante, allora, mi diede 15.000 lire, con le quali ho comprato Amleto, MacBeth e Re Lear. Nel tempo gli haiku e il rap mi hanno insegnato a scegliere le parole, a stare nella metrica. La poesia è ‘parola larga’, che allude e non racconta, in cui il suono è importante quanto il significato. Poi, con la fondazione della compagnia teatrale ilinx - che proprio qui a Crespi ha avuto la sua prima sede - teatro e poesia non hanno smesso di mescolarsi. A differenza della poesia, scrivere per il teatro mi ha permesso di scrivere per qualcun altro, per un personaggio. La poesia è un’arte per “anime elette”? Oppure i poeti sono dei ‘’raccatta merde”, come hai scritto in una tua poesia: “quando passa il mondo e caga, noi puliamo. / Trasformiamo la merda in oro”?
Quando ho scritto quelle parole ero giovane e drastico, ma la penso ancora così: raccattare la merda e trasformarla in oro. O, come diceva Dante, riuscire, con il lumicino della parola, a uscire dalla foresta oscura e passare pian piano dall’Inferno, al Purgatorio, al Paradiso. Penso ancora che sia possibile trovare nelle tragedie del mondo “la parte di argento scintillante che ricopre le nuvole" (NdR.: riferimento al modo di dire inglese every cloud has a silver lining). Sono convinto ancora che sia possibile trasformare il dolore e le ferite che ci portiamo dentro in qualcosa di scintillante: in questo modo le ferite risplendono e insegnano. L’altra cosa è la bellezza. Il “raccattare merde” non basta in sé, la cosa fondamentale è saperle trasformare. E penso che la bellezza sia nascosta nell’innocenza, come quella dei bambini, che amo alla follia: ecco, quella è un’innocenza anche brutale a volte, non è qualcosa di mieloso. L’innocenza di un animale è come quella del cavallo che intanto che ti lecca la mano ti morde - ma non lo fa apposta, è nella sua natura. Le tue poesie sono compatte, formate da una sola strofa, come se le scrivessi in un soffio solo. Come descriveresti il momento che precede la scrittura, cioè, come ti accorgi di voler scrivere una poesia? Scomodo ancora Franco Loi, che a sua volta aveva scomodato Dante. Lui dice che è “il soffio d’amore” che spira, che il poeta ascolta e di cui si mette al servizio. Ci sono delle volte, ed è una fortuna immensa quando accade, in cui c’è una parte di te - o dell’universo - che è a servizio. Sì certo, scrivo poesie per ‘’mettermi a posto’’, ma nello stesso tempo per dimenticarmi di me. In quel momento c’è qualcosa che parte da te ma si allarga ad altri: tutti amiamo, tutti siamo incazzati a volte, abbiamo dei dispiaceri, la vita per tutti inizia, ha uno svolgimento e finisce. Non a caso possiamo leggere poeti di tremila anni fa e ritrovarci nelle loro parole come se l’avessimo scritte noi o le avessero scritte ieri.
Questa è la cosa meravigliosa del raccontare, in generale, non solo della poesia: che non si è da soli. Questo Marina Cvetaeva, Mariangela Gualteri, Franco Loi lo insegnano. Senza scomodare Dio, o il sacro, è innegabile che c’è una parte di vita che rimane misteriosa. Come l’innamorarsi. Ed è quella parte di mistero che fa vivere le poesie. Chi scrive da tanto sa come ‘si fa il mestiere’, ma ti accorgi - anche nei poeti che ami - quando le poesie sono folgorazioni. E non si tratta solo dell’aspetto romantico del poeta in attesa dell’ispirazione, in una metaforica tempesta; anzi, credo che la quotidianità regali le poesie migliori. Stamattina dicevo ai bambini a cui insegno: “La cosa fondamentale è capire chi siete, che ci vuole una vita a capirlo, e mettere in atto quello che siete”. Trovare la natura propria delle cose e di se stessi, come direbbe il taoismo. La poesia per me è anche quello, capire chi si è, soprattutto quando tutto è confuso. Allora, o “la gran voce che muove il mondo”, come la chiamo, si impossessa di me e diventa personaggi che vivono determinate cose al posto mio o, a volte, c’è bisogno della poesia. Io scrivo poesia a momenti, come ora: dovrei finire un romanzo ma, ancora una volta, e non so perché, sto per andare a letto e mi arriva “quella cosa” e la devo scrivere per forza. Non ne puoi fare a meno. Franco Loi diceva che scriveva dappertutto, dietro gli scontrini, mentre era in giro per l’Italia a fare il rappresentante. “Quando arrivava la poesia”, diceva Loi, “non potevo fare altro”. Penso alla collaborazione con Gigi Gherzi per “A che pagina è la nostra fortuna”, ma anche all’amicizia con Franco Loi, a cui hai dedicato il documentario Dammi del Tu. Quanto gli incontri nutrono la tua poesia? E, guardando a maestri come lui, cosa pensi sia necessario oggi per essere poeta? L’incontro è fondamentale. Giancarlo Maiorino in una sua poesia dice “io ci sono perché tu me lo dici”. Ho conosciuto lui e Giovanni Giudici grazie al mio primo maestro di teatro, Beppe Bettani. Di Mario Luzi mi sono innamorato tramite il mio insegnante di arte Stefano Crippa. L’ho anche conosciuto di persona, Mario Luzi. Credo davvero che l’incontro sia il grande incastro del mondo. Prima di tutto credo che alcune persone non si conoscano, ma si ri-conoscano. Magari sono ritorni di vita in vita, se ci credi. Con qualcuno non capiterà mai, ma te ne accorgi subito quando con qualcuno c’è una sorta di ‘affinità elettiva’. Il filo che annodi con queste persone non lo sciogli più, neanche dopo anni in cui non ci si vede. Quando poi questo accade con qualcuno che consideri tuo maestro, come mi è capitato con Franco, hai la sensazione di andare a precisare e approfondire delle cose che già sono in te. Perché questo è quello che fanno i maestri: hanno già percorso una strada e danno indicazioni a te che la stai percorrendo ora. Essendoci una corrispondenza così forte, percepisci da subito che non c’è un ammaestramento, ma un insegnamento. Insegnante è “colui che segna”, che ti segna e che segna il cammino. Ma i maestri non sono solo i grandi: a volte sono persone che si occupano di cose lontane da quelle che piacciono a te, o che hanno età molto diverse dalla tua e che ti insegnano dei nuovi modi per stare al mondo. Credo che ognuno abbia la propria stella, il proprio daimon da seguire e che non si può scappare da quello. Gli incontri per me sono anche un rubare continuo: rubare personaggi, pezzi di storie… non per giocare al ladro, ma per essere al servizio di qualcosa. Il racconto Combattente d’amore, con protagonista una donna medico, nasce da nottate passate in compagnia della mia amica Paola, nottate nelle quali mi raccontava delle cose tremende della sua esperienza in corsia a contatto con il Covid. Sono stato contento che sia stato divulgato anche dal Corriere della Sera ma non per me, ma perché così molte altre persone avrebbero capito cosa stava vivendo una parte di mondo. E’ proprio il servitium, inteso in senso monacale.
Un verso della preghiera che recito tutte le mattine dice: “Allenami all’umiltà”. Quello che conta, aldilà delle biografie dei poeti, è quello che è rimasto scritto: ho dimenticato, per esempio, chi è Giovanni Giudici, ma Madame Bovary c’est moi no. Ed è quello che importa: Shakespeare non si sa chi è. Il poeta è davvero “uno che fa” e che fa in una certa maniera. Scrivi “confido nel piccolo. nella vastità” e “come rondine, d’ogni briciola, farmi contento”. C’è una cura del piccolo, nelle tue poesie, un’attenzione grata per i dettagli.
Questa è una cosa che devo molto a mia madre. Passeggiando in posti come questo, lungo l’Adda, lei mi faceva notare che nascevano le violette e che le coccinelle hanno una vita meravigliosa anche se sono minuscole e nel tuo tran tran tu non le noti. Là dove c’era qualcuno che aveva bisogno, una fragilità, lei c’era. Mi interessa molto di più la crepa, che il vaso d’oro. E poi per rendere omaggio al ‘piccolo del mondo’: l’esercito sterminato delle persone meravigliose che nessuno mai citerà nei libri di storia. Bambini dispersi nel Tamil Nadu, dove sono stato di recente, ma che sono esseri eccezionali. O incontri di persone che non scriveranno mai una poesia, ma che hanno novant’anni di storia da raccontarti.
Nello stesso tempo però la vastità. La coccinella, nella sua piccolezza, porta in sé miliardi di anni di volo. La vastità intesa anche come ripetersi: il tornare ogni anno delle stagioni, il fatto che la Zoé continui, nonostante te. Anche nella storia delle religioni ritorna, questo amore del grande e del piccolo, soprattutto nella mistica. Gli indiani per primi dicevano che l’Atman e il Brahaman coincidono, l’estremamente vasto dell’universo e l’anima singolare. O, come dicevano i chassidim, la Shekinah - la scintilla di Dio - è in ogni cosa, basta avere occhi per guardare. In questo senso Dio, il Brahaman, era "il Dio senza attributi”: non è né questo, né quello, ma sai che c’è. Anche i più grandi materialisti atei lo sanno, se si sono innamorati anche solo una volta, e non necessariamente di un uomo o di una donna. Lo senti che c’è una felicità, a volte, e non sai da dove arriva. Paul Klee diceva che non considerava la creazione di Dio finita, ma che era sempre in fieri ed è l’uomo che continua a creare per lui. I Sette giorni in cui il mondo sarebbe stato creato, in realtà continuano anche oggi. Occorre salvare la parte di mondo che ci è vicina.
C’è anche una dimensione politica libertaria dell’amore del piccolo: mi piace parlarne e valorizzarlo come contraltare di chi invece genera e possiede il potere e ha la concezione della storia solo dal punto di vista “del grande”, di colui che la fa la storia, del Napoleone Bonaparte di turno. Ci tengo a sottolineare che agli eroi preferisco gli idioti, i santi, i bambini. Viva Bertolt Brecht quando diceva “Triste il mondo che ha bisogno di eroi”. Gli eroi servono quando il momento storico richiede che qualcuno si prenda sulle spalle l’onere e onore della grande impresa. Io in realtà amo gli eroi nel piccolo. E’ per questo che scrivo in minuscolo la poesia. San Francesco era un eroe in senso buono, un santo. Diventava eroe nella sottrazione, non nella magnificenza. Le tue raccolte sono costellate di voci del verbo baciare, della parola carezza, parli del ‘’manto della cura’'. In Hirakali dici: “imparo dall’elefante la pazienza / e la dolcezza. / Oggi sono il re della tenerezza”. Il poeta forse è un uomo che ha scoperto la sua morbidezza?
Eravamo in Nepal, io e Mara, mia moglie. Si ha quest’idea del manto dell’elefante, che sia coriaceo. In realtà è morbidissimo. E’ un po’ quest’idea, della possanza del poeta come dell’elefante, sotto certi punti di vista nasconde una pelle tenera e fragilissima. Si ferisce facilmente la pelle dell’elefante, è tutto fuorché una corazza. Per quello che diventa così intelligente, deve esserlo per tutelarsi, per non farsi male. I baci e le carezze sono grandi metafore, ma sono anche realtà fondamentali, soprattutto in questi tempi. La vicinanza di corpi è necessaria non solo al bambino, ma anche all’adulto.
Poi c’è la parte sensuale del mondo: carezze e baci è anche fare l’amore con l’esistenza, entrarci davvero nelle cose. E’ la parte anche che ti fa vivere senza risparmiarti, ti fa bruciare e rimanere vivo. Per me un poeta può essere sia un atleta della parola che un portatore di vita: che abbia cura della parola ma che sia anche vitale. La poesia è corpo e sangue ma anche anima.
Sei autore anche di libri rivolti all’infanzia e sei tu stesso padre di una “bestiolina celeste”, ormai ragazza. Hai scritto: “quando ero piccolo ero di gomma e brace/ da piccolo ero uno specchio/ ero una voce “. Questo luogo mitologico delle nostre esistenze, il tempo in cui eravamo bambini, in che modo nutre la tua poetica?
Non ho mai smesso di essere un bambino. Penso che tutto accada qui adesso sempre e per sempre. Così penso che questa condizione dell’infanzia te la porti dentro e continui a esistere in te. Poi la puoi seppellire, puoi diventare altro. Ma non si tratta della retorica del fanciullino, che mi irrita. E’ il fatto che tu hai questa parte di te che è brace, entusiasmo, etimologicamente davvero ‘comunione col dio’ (dal greco enthusiasmòs). Forse l’infanzia è davvero un po’ l’età dell’oro. Per i taoisti l’età dell’oro corrisponde al permanere nell’indistinto: è quello che mi piace del bambino, che non mette categorie o caselle. E’ capace anche di metterne di tremende, ma alla sua maniera: il suo contenitore è sempre aperto, gioca sempre con tutto. “In questo grande gioco non vinco, non perdo, m’addestro”, mi piace ricordarmi. La stessa cosa vale per l’identità: posso dirti cosa non sono, non quello che sono. Franco Loi stesso, alla domanda su chi lui fosse rispondeva: “Eh, non lo so chi sono. Un bambino di novant’anni forse”.
Autore: Nina Rama (redazione ALIA)
Comments