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Gli ultimi


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Considerazioni ed esperienze di vita vissuta di un lavoratore di un centro di accoglienza

Ormai in tv siamo abituati a sentire i numeri dei contagi. Prima ancora c'erano quelli degli sbarcati. Oggi vorrei parlare di questi numeri, anzi di queste persone: gli ultimi arrivati, the refugees, i nuovi migranti, insomma i richiedenti asilo nella nostra zona, la Martesana.


La maggior parte sono uomini tra i 20 e i 34 anni. La ragione è semplice: hanno più possibilità delle donne di superare un viaggio lungo e pericoloso. Tutto ciò però è vero in parte: i trafficanti non temono certo di torturare un ragazzo. Oggi ho appunto letto la triste storia di Abou, un quindicenne ivoriano, che è stato torturato in Libia e poi caricato su un barcone; dopo giorni su una nave, è arrivato in Italia ed è stato messo in quarantena. È morto a Palermo questa settimana.


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To arrive savely, “arrivare al sicuro”: sono le parole che pronunciano di continuo gli africani, ma in Italia non significa che l'incubo finisca. “I traumi da distacco dalla famiglia e i vissuti di violenza durante il viaggio se li portano a letto”: queste sono le parole di un medico che ha visto i lager in Libia. In effetti esperienze del genere portano disperazione e depressione, senza contare il disfattismo dell'iter burocratico italiano. Di fronte a tali difficoltà mi chiedo spesso che cosa gli venga detto o promesso prima di venire in Europa. Mi domando quanto sia difficile vedere le proprie speranze disattese così tanto. C'è chi addirittura chiede di tornare a casa, con il programma di rimpatrio volontario. Sono poche persone, perché ciò implica che si debba in qualche modo dire: “ho fallito, non ho trovato l'oro...”. Eppure qualcuno c'è: la sconfitta è preferita al vivere qui da noi.

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Una delle prime immagini dell'Italia per un migrante è il centro di accoglienza. Spesso in tv ne vediamo di grandi, con una capacità a volte maggiore alle 100 persone in un'unica struttura, magari una ex caserma militare: “il campo", come lo chiamano i ragazzi. Ci sono mense, posti letto, ma soprattutto tante regole e orari da rispettare (che per me sono il “coprifuoco”). In passato tanti di questi centri sono stati purtroppo chiusi perché erano in mano a cooperative fake o erano difficili da gestire. Il risultato è stato catastrofico. A Bresso per esempio la gente dorme ancora in tende della Croce Rossa.


Mi ricordo di un ragazzo che arrivava da un grande centro a San Zenone e aveva con sé un suo numero personale, etichette sullo zaino, documenti e oggetti personali. Per chi non lo sapesse, gli sbarcati a Lampedusa ricevono un numero per l'identificazione. Ne posso capire l'utilità a livello gestionale, ma in un centro d'accoglienza la situazione cambia: devi essere una persona, con nome cognome, una propria storia... e anche un proprio operatore sociale, che ti segue e ti spiega la procedura. Un rifugiato ha bisogno di sentirsi a proprio agio e di ricevere un po' di dignità. Quel ragazzo per esempio era felice anche solo di cucinare i propri pasti a casa e di dormire in stanza con due persone, invece che in un sala in 30, su un letto a castello come i militari. Ciò è possibile perché qui nella nostra zona i centri di accoglienza sono fortunatamente piccoli: immaginatevi degli appartamenti da 6 persone. Io per esempio lavoro nel Centro di accoglienza della cooperativa LPK a Bettola; è una struttura per 15 ragazzi di vari paesi: la casa più grande in zona. L'esiguità del nostro gruppo permette di coesistere serenamente, anche se a volte la convivenza forzata si fa sentire: sono persone di diverse etnie, quindi con usi e costumi differenti, e ciò può portare a dei dissapori. Ognuno di loro ha una storia che porta con sé, è un viaggiatore con un bagaglio fatto di ricordi.


I nostri ospiti, "i miei ragazzi" come li chiamo, sono accolti dopo aver fatto uno dei due viaggi fissi.

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Il primo è “il viaggio” per mare dalla Libia, con arrivo nella maggior parte dei casi sulle coste della Sicilia. In base all'indagine del 2018 di un giornalista, l’84% delle persone intervistate ha dichiarato di aver subito trattamenti

inumani, tra cui violenze brutali e sevizie; il 74% di aver assistito all’omicidio o alla tortura di un compagno di viaggio; l’80% di aver patito la privazione di acqua e cibo; il 70% di essere stato imprigionato in luoghi di detenzione ufficiali o non ufficiali.


Tante cifre inquietanti, ma la verità è che in Libia sei un numero. Gli africani vengono venduti in piazze e grossi magazzini, per fare lavori domestici, lavori pesanti in cantiere ecc... I soldi sono bastati per arrivare fino in Libia, ma adesso l'ultimo tratto va pagato con il lavoro. Il padrone li chiude in casa e ha il destino di tutti loro in mano: è lui che concede il permesso per imbarcarsi.


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L’altro “viaggio” passa dai paesi balcanici. quando si vede l'orizzonte di Trieste. Da un altro report: “Lungo questo percorso, il respingimento dei migranti è diventata una pratica comune. Le testimonianze raccolte mettono in luce gravi abusi di potere contro i migranti, spesso aggravati dall'uso della violenza. L’intenzione è di demotivarli dal proseguire il loro viaggio. Nello specifico viene riportato di persone aggredite da cani sguinzagliati contro di loro, picchiate con bastoni, obbligate a svestirsi nelle fredde temperature invernali, nonché a lasciare i loro averi agli agenti di polizia. Vengono inoltre riportati frequenti casi di espulsioni collettive. Un ulteriore smacco al rispetto dei diritti umani viene messo in atto dalle autorità quando queste non offrono ai migranti un'informazione adeguata dei propri diritti e negano arbitrariamente l'accesso all'iter di domanda di asilo politico. Violenze e abusi sono diventati una costante nella vita dei migranti in viaggio lungo la rotta balcanica.”


Aggiungo un terzo gruppo di persone: i richiedenti asilo che hanno avuto un no, un rigetto da parte di un altro paese d'Europa, spesso ricevendo una lettera di espulsione. Mettiamoci un attimo nei panni di questi ultimi. Da Novembre in poi abbiamo visto aumentare i casi di gente in Italia che prova di chiedere la protezione per una seconda volta. Non è una coincidenza.


Dopo 6, 8 anni una persona è perfettamente integrata in Germania, Svezia o Danimarca: ha un lavoro regolare, una casa in affitto, una macchina, ottima conoscenza della lingua straniera, l'integrazione (un tema su cui si può anche discutere)... A un certo punto si trova davanti alla signora Merkel che dice: “Puoi tornare a casa”. Mi verrebbe da dire: “Allora va davvero tutto bene a casa a Kabul?! A Bagdad?! Amnesty International ha pubblicato un report che parla delle espulsioni da parte della Germania. C'era addirittura un patto tra alcuni paesi europei e l'Afghanistan: una bella somma di soldi per il governo afgano per rimpatriare i migranti a casa loro. A casa loro, parole da brividi.


Le conseguenze per queste persone sono pesanti: il rischio di essere uccisi al ritorno, il rifiuto da parte dalla famiglia (“non sei riuscito a portarmi in Germania, ho dovuto spostarmi tante volte per non essere catturato dai Talebani...”), il timore di non tornare mai più nel proprio paese, la possibilità di cattura o di obbligo a entrare in qualche banda, la dipendenza da droghe fino al suicidio.


Durante il lockdown la situazione è solo peggiorata. I parenti dei nostri ospiti seguivano il TG e tutto il mondo sapeva della grave situazione in Italia. I ragazzi dovevano rassicurare i familiari che stavano bene, ma dare la brutta notizia che avevano perso il lavoro subito. Vengono assunti come lavapiatti, aiuto cuoco, per le pulizie; professioni modeste, ma per loro fondamentali. È stato perciò un doppio dramma: perdere il lavoro e non poter sostenere la propria famiglia. Non bisogna dimenticare che alcuni ragazzi hanno ancora un debito con i trafficanti. Quello che per noi è stato una prigionia, per loro è stato molto di più: la consapevolezza di essere riusciti a farcela, dopo le rinunce e i pericoli, e poi vedere la tanto agognata libertà scivolare dalle dita...e loro non potevano fare altro che guardarla andare via impotenti.


Approfondimento: La situazione del Bangladesh

È considerato uno dei paesi più poveri di quella zona. I profughi del Bangladesh, come altri della Saudi Arabia, all'inizio partivano in aereo con dei falsi documenti verso Tripoli e lavoravano lì da migranti economici. L’obiettivo era di tornare un giorno a casa.


Come in tanti paesi, gli abitanti del Bangladesh gestivano phone call shops, nightshops, cosmetica center. Quando scoppiava la guerra, che non era la loro, erano i primi però a essere minacciati e a perdere la propria attività. L'unico modo per scappare dall'inferno era tramite il mare, che non assicurava un arrivo. Ora i bengalesi provano anche la via dei balcani.


Torno a noi, consumatori, gente in teoria senza grandi preoccupazioni: “Cosa mangio oggi? Riesco a pagare l'affitto? La scuola della figlia?”. Guardiamo le magliette nell'armadio: 10 anni fa c'era scritto Made in Maroc, poi Romania e ora Bangladesh. Le grandi marche come H&M, Nike e altre sanno dove trovare la mano d’opera più economica. In alcuni paesi infatti pian piano gli operai hanno avuto più diritti e il lavoro si è spostato fino al Bangladesh perché lo stipendio è molto basso.

Viva la globalizzazione!


Sembrano tutte situazioni a noi distanti, ma non è così. A Inzago quest'anno abbiamo tutti seguito la vicenda del ragazzo bengalese che è stato fermato da due vigili di Inzago e multato pesantemente perché faceva il suo lavoro: vendere rose. A qualcuno evidentemente dava fastidio...


I problemi intorno alla migrazione non riguardano le persone, ma la burocrazia, la questura che non funziona, i francesi che decidono ancora il prezzo del cacao in Costa d’Avorio, la povertà in Africa... e i populisti, che pensano di risolvere la questione chiudendo tutto. Bisogna imparare a leggere le motivazioni delle persone: perché un ragazzo vende le rose in giro? Perché semplicemente non vuole più sudare per la nostra bella maglietta!


Noi ci lamentiamo spesso della burocrazia italiana, ma vi posso assicurare che la procedura dei richiedenti asilo è lunga e si articola dalla richiesta di protezione fino a ottenere i documenti regolari per poter rimanere nel nostro paese. Un iter estenuante, su cui ci dovremmo informare di più... almeno prima di parlare!


Autore: Jelle De Bruyne



 
 
 

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