top of page

Global cities e diritto alla città



Logiche e problemi delle metropoli contemporanee: tra esclusione e speculazione


“La questione di che tipo di città vogliamo non può essere disgiunta dalla questione di che tipo di persone vogliamo essere, che tipo di relazioni sociali cerchiamo, che rapporti abbiamo con la natura, che stile di vita desideriamo o che valori estetici abbiamo”


David Harvey – Rebel Cities; 2013


Il 2009 ha rappresentato un momento molto significativo nella storia dell’urbanizzazione: la popolazione residente nelle città ha superato quella che vive nelle campagne, 3,42 miliardi contro 3,21 (United Nations, Population Division; 2010). Ogni giorno la quota di residenti degli agglomerati urbani aumenta in media di 180.000 persone. Secondo le ultime stime del “World Urbanization Prospects 2018” delle Nazioni Unite, la situazione in termini numerici pare anzi aver preso una traiettoria di crescita esponenziale e si prospetta che da qui al 2050 quasi il 70% della popolazione mondiale si ritroverà a vivere in aree urbane per necessità o lavoro. Proprio alla luce di ciò, sembra dunque sensato aprire una riflessione sullo stato attuale delle nostre città, evidenziando le grandi sfide che ci troviamo e troveremo ad affrontare nell’imminente futuro.


Proprio come accaduto ai tempi della Rivoluzione Industriale, anche oggi proletari e poveri in cerca di una speranza di vita o un’opportunità si accalcano abusivamente ai margini dei centri urbani, nelle periferie o -come più spesso capita nelle grandi megalopoli asiatiche, sudamericane e africane- in baraccopoli fatiscenti, slum, bidonville e favelas. Jakarta, Tokyo, Karachi, Manila, Mumbai, Lagos, Il Cairo… sono solo alcune delle megalopoli che nel giro di qualche decennio hanno fatto registrare cifre da capogiro e che mirano a essere, se già non lo sono, padrone indiscusse della scena mondiale dei prossimi anni. Dati ancora più strabilianti se si pensa che nel 2010 solo tre città al mondo, New York, Tokyo e Città del Messico, erano state catalogate come tali.


La sociologa americana Saskia Sassen ha forgiato ex-novo il termine Global Cities proprio per descrivere questo tipo di città globalizzate, sempre più intrecciate e interconnesse tra loro e divenute sì centri decisionali di portata mondiale, ma anche luoghi di elevato conflitto e disparità sociale. La Global City rappresenta, infatti, in tutto e per tutto il modello perfetto di città capitalistica, che da un lato possiede e usa le risorse economiche per agire sui mercati finanziari internazionali, e dall’altro modifica, attraverso la governance, l’organizzazione dello spazio urbano, producendo enormi lotte per l’uso e l’occupazione del suolo tra chi ha i capitali (le classi dirigenti e creative) e chi quel luogo lo vive quotidianamente (i cittadini).


Questo è di fatto proprio ciò che sta avvenendo nelle megalopoli e metropoli di tutto il mondo: i grandi fondi finanziari privati, in accordo con gli enti pubblici, si sono fatti promotori di azioni di “rigenerazione” dei centri urbani, finalizzati più al compimento di interessi di mercato che alla realizzazione di servizi per la cittadinanza. Il risultato: città ridotte a “passerelle della moda”, tappezzate da insegne luminose, negozi, ristoranti di lusso, mega hotel a cinque stelle e miriadi di appartamenti affittati a turisti occasionali. E in tutto ciò, che ne è stato dei cari e vecchi abitanti? Eccoli lì, costretti ormai a vivere in periferia, in zone disagiate o trasformatisi in pendolari; sono messi ai margini della “città vetrinizzata”, diventata inaccessibile ai più, drammaticamente cara e inospitale, sempre più vittima di manovre di privatizzazione e speculazione edilizia.


Proprio alla luce di ciò, pare fondamentale ora più che mai rivendicare il nostro “Diritto alla città”, esattamente come il sociologo francese Henri Lefebvre lo aveva pensato, ossia il diritto, in quanto cittadini e abitanti di un territorio, a viverlo e organizzarlo per poter dire la nostra in merito all’uso e alle funzionalità destinate allo spazio che attraversiamo ogni giorno.


Vanno esattamente in questa direzione le nuove riflessione sullo stato attuale delle nostre città portate avanti da numerosissimi movimenti di vicinato e assemblee di quartiere. Essi rivendicano con azioni di Urbanismo Tattico, Guerrilla Gardening e Do it Yourself Urbanism, ossia attraverso arte e giardinaggio, l’occupazione fisica di piazze, strade ed edifici nel cuore della città con l’obiettivo di restituirli alla comunità e sottrarli, così facendo, alle grinfie fameliche del mercato.


Ecco allora che in tutte le città del mondo riecheggia il grido di ribellione e rivolta. Prediamo esempio da loro, dunque, e torniamo a “ri-politicizzare” lo spazio urbano con i nostri corpi per creare insieme nuovi modelli dell’abitare, perché “la questione di che tipo di città vogliamo non può essere disgiunta dalla questione di che tipo di persone vogliamo essere, che tipo di relazioni sociali cerchiamo, che rapporti abbiamo con la natura, che stile di vita desideriamo o che valori estetici abbiamo” (Harvey; 2013).




 

Autore: Beatrice Galbignani




 
 
 

Comments


  • Facebook
  • Instagram
bottom of page