Identità di genere e disforìa di genere: facciamo chiarezza
- Accorciamo le distanze

- 25 nov 2020
- Tempo di lettura: 5 min

Oggi siamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione socio-culturale. Avete mai sentito parlare di identità di genere e di genere X? E di incongruenza di genere?
Secondo tradizione gli individui vengono differenziati in uomini e donne puramente sulla base delle loro differenze biologiche. Questo porta spesso a una erronea identificazione del concetto di identità di genere con quello di orientamento sessuale.
L’orientamento sessuale, come la maggior parte di noi ormai sa, indica un’attrazione, duratura, innata o immutabile, a livello emozionale, romantico o sessuale nei confronti di un’altra persona.
Il termine identità di genere, invece, si usa per descrivere il genere in cui una persona si identifica e non è detto che esso corrisponda alle caratteristiche biologiche sessuali.
Sesso e genere assumono ad oggi due accezioni differenti; con il primo termine ci riferiamo all’anatomia biologica dell’individuo, mentre con identità di genere si indica la percezione che lo stesso individuo ha nei confronti di sé e di come si identifica nel sistema sociale in cui vive.
Per la maggior parte degli individui l’identità di genere è in linea con il sesso attribuito loro alla nascita sulla base degli organi genitali posseduti. C’è però la possibilità che ci sia una discontinuità tra sesso e genere, ovvero può capitare che una persona non si riconosca nel sesso con il quale è nato. Esistono individui nati anatomicamente come donne che si sentono uomini, persone nate di sesso maschile che si riconoscono nel genere femminile e anche soggetti che non si identificano in alcun genere o che lo fanno a periodi alterni.

E’ per ragione di inclusione, non solo sociale ma anche legale, che alcuni stati, come la Germania e l’India, hanno introdotto la presenza di un terzo genere, affinché chi non si riconosce propriamente nel genere F (femminile) o M (maschile) possa ritrovarsi nel genere X. Si ottiene in questo modo una nuova identificazione che scardina in pieno il concetto di binarismo di genere, ovvero il solo riconoscimento dell’identità maschile e femminile. Ora si ha finalmente un termine di più ampio respiro, in cui la diversità, l’unicità e la libera indeterminatezza d’essere se stessi hanno la giusta valorizzazione.
La foto ritrae Farzana Riaz, donna transgender e attivista pakistana. E’ il 28 Giugno 2017 ed è lei la prima persona a cui il Pakistan ha concesso un passaporto con l’indicazione di terzo genere (X).
In Pakistan il genere X include anche i khawajasiras, termine identificativo di transessuali, travestiti ed eunuchi. Ciò implica purtroppo che ci si ritrovi impigliati in un altro binarismo: si appartiene o al proprio genere biologico o al genere X; si è “giusti” nelle proprie sembianze o si è un indefinito “altro”. Una persona non può identificarsi con il sesso opposto.
Nascere in un corpo diverso dalla propria identità di genere, un corpo che non riflette il proprio essere, può portare ad un senso di immensa inadeguatezza, frustrazione e sofferenza psicologica.

Per molto tempo in medicina si è parlato di disturbo dell’identità di genere (DIG) per descrivere una condizione di profondo disagio psicologico (disturbo mentale) da parte di un soggetto che si identifica nel genere opposto rispetto al proprio sesso biologico.
A questo proposito, la WPATH (World Professional Association for Transgender Health), organizzazione dedicata alla comprensione e al trattamento dei disturbi d’identità di genere, ha rilasciato una dichiarazione nel Maggio 2010 incoraggiando a livello universale, la depsicopatologizzazione del disturbo d’identità di genere. Questa battaglia è stata portata avanti argomentando che: <<l’espressione delle caratteristiche di genere, inclusa l’identità, che non è associata in maniera stereotipata con il sesso di nascita assegnato ad ognuno, è un fenomeno umano comune e culturalmente diverso che non dovrebbe essere giudicato come naturalmente patologico o negativo>>.
Nell’ultima versione del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) del 2013, ovvero il DSM-5, non si parla finalmente più di Disturbo dell’Identità di Genere ma di disforia di genere. Non si pone più l’attenzione sull’idea di un’identità disturbata ma sul disagio che deriva dall’incongruenza tra sesso biologico e genere di identificazione.
Con questa nuova tipologia di diagnosi, che può apparire solo come un piccolo step verso il cambiamento, la disforia di genere non rientra più nella categoria delle parafilie e dei disturbi sessuali, ma si inserisce all’interno di una dinamica più vasta che riguarda l’identità e la personalità dell’individuo.
La disforia di genere comporta una combinazione di ansia, depressione e irritabilità; è abbastanza comune che le persone transessuali inizino a soffrire di disforia già nell’età infantile. In questi casi i bambini:
Insistono nell'affermare di essere dell'altro sesso
Prediligono abiti tipici del sesso opposto
Preferiscono partecipare ai giochi e alle attività tipicamente dell'altro sesso
Hanno sentimenti negativi o di rifiuto nei confronti dei loro genitali
Questo tipo di incongruenza può però manifestarsi anche in età adolescenziale o, addirittura, adulta con una sensazione di profondo malessere nei confronti del proprio corpo, percepito come estraneo. Ne consegue spesso disgusto verso i propri genitali, che può essere, ma non necessariamente, accompagnato anche da un forte desiderio di volersene liberare.
La terapia prevista per la disforia di genere si basa sulla stretta collaborazione tra psicologi, psichiatri, endocrinologi e chirurghi, che hanno il compito di accompagnare ogni persona che lo desidera nel percorso di transizione, con lo scopo di ridurre il più possibile la sofferenza della persona che ne è affetta. Non tutte le persone trans però decidono di sottoporsi all’operazione chirurgica per cambiare definitivamente sesso.
E in Italia?
«Fino al 2015, l’identità di genere per lo stato italiano dipendeva non dal senso di sé di un soggetto, ma esclusivamente da ciò che un soggetto aveva tra le gambe, si trattasse di un organo genitale naturale o di una sua ricostruzione artificiale. Il nostro sistema giuridico rispondeva quindi a una logica binaria molto rigida: o sei maschio e quindi devi essere uomo, o sei femmina e quindi devi essere donna. Se sei maschio ma vuoi essere donna, il nostro sistema giuridico ti concedeva di diventare legislativamente donna o uomo solo a patto che tu ti facessi demolire ed eventualmente ricostruire i genitali, anche se probabilmente questo avrebbe potuto farti rinunciare al piacere dell’orgasmo, darti forti reazioni di rigetto o ancora causarti altre complicazioni», ha spiegato più che esaustivamente Lorenzo Bernini, professore associato di Filosofia politica all’Università di Verona, che dirige il centro di ricerca PoliTeSse (Politiche e Teorie della Sessualità).
Nel 2015 la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale hanno finalmente stabilito che l’intervento medico-chirurgico non è più necessario all’ottenimento della “nuova” ufficiale identità di genere.
Dal 1° Ottobre 2020 il processo di transizione è gratuito a spesa dello Stato; chiunque abbia deciso di sottoporsi alla terapia per poter adeguare il proprio corpo al genere che sente suo, può recarsi in farmacia con l’apposita prescrizione medica e ottenere gratis i medicinali di cui ha bisogno. Sarà il Sistema sanitario nazionale a rimborsarne il costo. Le associazioni LGBTQ+ definiscono questa vittoria come gender revolution o rivoluzione di genere.
Tale conquista però è parziale: in Italia si può essere considerati a livello legale come uomini o donne, ma niente di più. Chi non riesce a identificarsi con l’uno o l’altro genere, o chi non vuole scegliere di appartenere a nessuna delle due categorie, non è legislativamente supportato. Il binarismo di genere, dunque, esiste ancora in Italia.
Molta è ancora la strada da fare perché siano riconosciute nel mondo tutte le identità sessuali e di genere. Siamo solo all’inizio.
Autore: Lucrezia Abate


Commenti