Il difficile rapporto tra pubblico e privato
- Accorciamo le distanze

- 22 lug 2020
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Ogni stato nel mondo ha raggiunto un proprio equilibrio di intervento tra settore pubblico e settore privato, ma perché abbiamo questa interrelazione? È davvero efficiente?
Affacciandoci alla società in cui viviamo sentiamo spesso parlare del rapporto, talvolta conflittuale e caotico, tra privato e pubblico; in effetti molti ancora non sanno come mai esista una tale distinzione e come questi due sistemi funzionino. La loro differenza è, in realtà, semplice. Possiamo avere prodotti e servizi pubblici, forniti ed erogati dagli Enti Statali (nel caso italiano da comuni, regioni e Stato in senso ampio) e servizi o prodotti che invece vengono distribuiti da enti privati (aziende private).
Perché ciò avviene? Come si sono organizzati i vari stati e perché non utilizzano tutti lo stesso sistema? Queste sono solo alcune delle domande che possiamo porci a riguardo, ma partiamo con un breve excursus teorico e storico. Banalmente una fruizione privata dei prodotti è sempre esistita; per esempio la forma classica del baratto altro non è che uno scambio di prodotti e servizi tra privati. Solo con la nascita di organizzazioni societarie più complesse abbiamo avuto i primi casi di intervento statale nell’economia; come studiamo nei libri di storia, un’evoluzione tale comporta la nascita della riscossione tributaria e la fornitura di servizi statali ai cittadini (in epoca romana, per esempio, venivano riscossi dei tributi per pagare la formazione dell’esercito al fine di difendere il territorio).
Nel corso dei secoli sono state progressivamente avanzate delle teorie su come rapporto e proporzione tra intervento pubblico e privato debbano funzionare. Semplificando le varie ideologie e teorie economiche avanzate, possiamo vedere due scuole di pensiero distinte: il “capitalismo”, che crede fermamente che il privato da solo possa autogestirsi, e la fazione opposta che invece ritiene necessario l’intervento statale in ogni ambito di vita economica del cittadino. Chiaramente nessuna delle due strade è quella giusta e, come nella maggior parte degli ambiti, la scelta ottimale sta nel mezzo, nell’equilibrio dei due interventi.
In realtà, la fazione che più si avvicina a un meccanismo funzionante dell’economia è il capitalismo, poiché se ci trovassimo nelle condizioni di concorrenza perfetta non servirebbe un intervento statale in nessun ambito: il mercato da solo si regolerebbe garantendo la piena soddisfazione di tutti i soggetti economici (fornitori e consumatori). Purtroppo però tale stato dell’economia non è raggiungibile, perché richiede condizioni introvabili normalmente. Tali presupposti sono: infiniti consumatori; infiniti produttori; nessuna barriera d’ingresso (chiunque voglia iniziare a produrre un bene può farlo senza incontrare alcun ostacolo); infinita libertà nel trasferimento di fattori produttivi (per esempio nessuna tassa o controllo nel passaggio da un soggetto all’altro). Tutte queste condizioni non sono ottenibili generalmente in economia. La mancanza di tale concorrenza rappresenta il primo fondamentale fallimento del mercato. Essi sono fenomeni sistematici che avvengono a causa degli errori del sistema, che si generano in quanto l’economia non è perfetta, non è una scienza esatta. Gli altri fallimenti che troviamo sono: asimmetrie informative, esternalità (positive e negative) e beni pubblici.
Le asimmetrie informative vi sono qualora i vari soggetti facenti parte del rapporto economico non abbiano lo stesso ammontare di informazioni sullo scambio che sta avvenendo (banalmente un cliente che compra un bene non avendo le corrette e complete informazioni a riguardo, avendo davanti a sé un venditore che le omette). Le esternalità, che possono essere positive o negative, invece sono degli effetti dell’attività economica di un soggetto che si riversano su terzi, senza che chi subisca il danno (est. negativa) o la miglioria (est. positiva) venga risarcito o paghi per ciò che gli è avvenuto. Ovviamente le esternalità rappresentano un fallimento e un errore quando creano effetti negativi sugli altri soggetti economici; ad esempio un’azienda che riversa nell’acqua o nell’aria rifiuti industriali che vanno a danneggiare l’ambiente e l’ecosistema. Infine, i beni pubblici sono quei beni la cui produzione da parte di privati rappresenterebbe un rischio, sotto un profilo di efficacia ed efficienza, per via di determinate caratteristiche. Quest’ultime sono la non rivalità nel consumo e la non escludibilità nel consumo; in breve: la produzione e la vendita di tali beni permettono a più di una persona il loro sfruttamento e consumo. Ad esempio, un gelato viene comprato e consumato da una sola persona, invece il servizio di illuminazione stradale non può essere comprato e consumato individualmente.
Per tutte queste ragioni lo Stato è chiamato a prendere parte nell’attività economica e a porre rimedio a questi errori (“fallimenti”). Si crea quindi il meccanismo, che abbiamo già accennato, di “raccolta fondi” attraverso la riscossione di tributi e la produzione di servizi per la società. Ma ogni stato gestisce questa procedura come meglio crede, politicamente parlando. Troviamo allora in ogni nazione del mondo una diversa presenza statale nell’economia, con effetti più o meno positivi. Pensiamo alla differenza tra Stati Uniti, famosi per lasciare gran parte dell’intervento in mano ai privati, anche in settori economici molto critici come il sistema sanitario, e l’Italia, che invece è famosa proprio per il sistema di sanità pubblica. Non serve essere eccellentemente preparati sull’argomento per capire quanto una privatizzazione su certi servizi e beni pubblici possa provocare effetti drastici e negativi sulla popolazione, non facendola sentire protetta e tutelata. Il diverso approccio dei due stati sul sistema sanitario rende bene l’idea di quanto poco efficace sia lasciare alla gestione privata determinati servizi di cura della persona, e lo stesso esempio si può affrontare per altri settori come istruzione, assicurazione, pensionamento ecc.
Tuttavia, anche l’intervento statale ha dei limiti; possono esistere, infatti, dei fallimenti dello Stato: non è facile organizzare il meccanismo della riscossione tributaria, e creare un buon livello di fornitura di servizi pubblici è costoso e rischioso per le finanze statali. Tutte queste criticità si notano quotidianamente anche solo nei titoli dei quotidiani, nei vari giochi politici dei partiti e nella normale attività statale. Non è facile far incontrare le idee di tutti gli esponenti politici e raccogliere il consenso pubblico, in particolare quando i soldi utilizzati per la fruizione dei servizi sono derivati dalla contribuzione dei cittadini stessi.
Detto ciò, lo stato attuale della proporzione di intervento pubblico nell’economia non ha ancora raggiunto un equilibrio soddisfacente in nessuna parte del globo; le lotte politiche e l’ampia varietà di pensiero all’interno della società rende difficile la costituzione di un rapporto ottimo tra pubblico e privato. Per queste ragioni credo fermamente che una soluzione possa essere trovata all’interno di un meccanismo che si sta andando a formare negli ultimi anni: un accordo tra le due parti, non volto alla spartizione e gestione autonoma dei compiti, bensì che punti a un’azione combinata dei due settori, utilizzando i meccanismi funzionali privati con soldi statali, con l’aiuto dello stato e dei cittadini. Questo nuovo processo, che sta già iniziando a comparire in alcuni ambiti e a mostrare la sua efficacia, prende il nome di terzo settore. La sua efficienza risiede nel far prendere direttamente parte all’attività economica ed organizzativa anche i cittadini, senza che essi debbano essere limitati a compiere scelte, di bilanciamento tra pubblico e privato, in maniera indiretta tramite le elezioni.
Autore: Elisa Caravaggi


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