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Il potere del linguaggio


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Perché molto spesso i media non sanno raccontare la violenza di genere.


2020, Italia. Non solo respiriamo ancora l’aria pesante di una cultura fortemente maschilista, ma dobbiamo anche convivere con notizie di donne vittime di violenza o che vengono uccise; notizie spesso riportate prima di un gossip o di un nuovo tormentone estivo, come se fossero lo sciroppo amaro buttato in gola prima di un cucchiaino di zucchero. In più dobbiamo fare i conti con i numeri che l’Istat ci fornisce e che fanno spavento. Basti pensare che solo nel periodo di lock down, dal 1 di marzo al 16 di aprile 2020, l’Istat ha registrato un aumento del numero delle violenze; le telefonate al 1522 hanno subito un incremento del 73% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e 2013 donne hanno chiesto aiuto al numero verde, in quanto vittime di violenza, registrando un aumento del 59% rispetto allo stesso periodo nel 2019. Anno in cui l’istituto nazionale di statistica parla di 88 vittime ogni giorno; una donna ogni 15 minuti.

In questo clima malsano molti giornali aggiungono la ciliegina sulla torta vomitando titoli che fanno ribrezzo e che sostengono un modo di pensare che non dovrebbe esistere, considerando che la lettura ha un grande potere di influenza sulle masse e sui più giovani.

“Ubriache fradicie al party in spiaggia, due 15enni violentate dall’amichetto”.

Riporto un titolo del 08/07/2020 che da settimane ha creato dissensi sui social e che è l’amara cornice di un articoletto di cronaca scritto da Rimini Today.

Ubriache fradice. Il titolo usa la forma passiva che automaticamente mi ha riportata a un articolo di un mio docente di triennale di sociologia, Marcello Maneri. In un articolo sul panico morale che, coincidenza, parla di alcune violenze avvenute verso la fine degli anni ’90 a Rimini, Maneri sostiene come la forma passiva nell’ambito giornalistico sia molto comune e metta in evidenza la vittima, piuttosto che il colpevole. L’aggettivo fradice è la goccia che fa traboccare il vaso perché sottolinea uno stato di incoscienza e quindi di fragilità delle ragazze in questione. Il titolo parla di party in spiaggia, quindi il preambolo di qualcosa che in teoria dovrebbe essere divertente, spensierato e la spiaggia è un luogo estivo, dove vanno le famiglie con i bambini e di conseguenza un luogo che dovrebbe essere sicuro. Ecco che il titolo introduce le protagoniste della vicenda: due quindicenni (quelle ubriache fradice dell’inizio) che sono state violentate dall’amichetto. L’uso del vezzeggiativo è forse il colpo di grazia, come per giustificare la persona in questione e minimizzarne il gesto. Un titolo del genere non può certo annunciare un articolo di spessore che, non entrerò nei dettagli, cerca di elevarsi a un pezzo di cronaca. In caso di stupro, come in questo, gli articoli richiamano spesso nei dettagli l’abbigliamento, gli atteggiamenti, le abitudini della vittima (in questo caso “ubriache fradice”). Se una donna ha relazioni con diversi uomini, se esce di casa da sola la sera, se indossa abiti succinti, se è una prostituta, se ha accettato di uscire con un uomo che conosceva appena… Ogni volta che l’accento è posto su queste circostanze viene suggerito che la donna, quella violenza, in fondo se l’è cercata.

Il titolo del pezzo sulla violenza di Rimini ha creato non poche polemiche, soprattutto a seguito di altri articoli di pessimo gusto, come quello del Il Mattino dal titolo: “Il dramma dei padri separati”, riguardante la vicenda di Gessate in cui un uomo ha ucciso i due figli per poi suicidarsi.

I post di indignazione riguardano ovviamente il linguaggio usato da molte testate per parlare di tematiche delicate e come spesso, tale linguaggio, venga giustificato per via dei tempi frenetici di redazione o per via di una semplice leggerezza. È lo stesso Il Mattino a scusarsi, in data 28/06/2020 in questo modo: “La fretta, si sa, è cattiva consigliera. E per la fretta capita di sbagliare. Ieri è capitato a noi”. Il Mattino, a un giorno dal titolo incriminato, si scusa attribuendo la colpa alla fretta e sostenendo di aver banalizzato un dramma. Un articolo che, a mio parere, gira solamente il coltello nella piaga.

In Italia il discorso pubblico stenta ancora a slegarsi dai pregiudizi del passato, a chiamare le cose con il proprio nome e ad affrontare attraverso il linguaggio il nodo complesso della violenza maschile sulle donne.

Il Comitato per l’attuazione della Cedaw (la Convenzione dell’Onu per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne) nelle Raccomandazioni all’Italia del 2011 si è detto “preoccupato per l’elevato numero di donne uccise da partner ed ex partner, che può indicare un fallimento delle autorità dello Stato nel proteggere adeguatamente le donne”. In Italia l’uccisione con movente di genere è infatti la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni.

Il neologismo femminicidio ha forse iniziato da poco a farsi largo nel linguaggio dei media italiani ma sono centinaia ancora i titoli su uccisioni e violenze contro le donne che contengono l’espressione “delitto passionale” o altre parole come gelosia, follia, tanto vaghe quanto inadeguate.

Quando ho svolto uno stage di giornalismo lo scorso ottobre, Stefano Trasatti ha parlato di un testo a cui ha lavorato, “Parlare Civile”. Nel paragrafo che riguarda il genere, la ricercatrice Giorgia Serughetti sostiene come spesso i media usino scorciatoie linguistiche per raccontare la paura dell’abbandono, l’incapacità dei colpevoli di fare i conti con la libertà delle compagne, mogli e amanti; lo schema usato dai media è sempre lo stesso, lei minacciava di lasciarlo e lui l’ha uccisa.

Serughetti sostiene come i media parlino anche di relazioni turbolente, di storie d’amore appassionate, associando così l’amore di coppia con l’omicidio, che è invece per definizione la negazione di ogni relazione.

Un altro termine usato da molte testate come si usa il prezzemolo è quello di “raptus”, una parola che l’Enciclopedia Treccani definisce come: “impulso improvviso e incontrollato che spinge a comportamenti parotossistici, per lo più violenti”. Capiamo subito allora che quando il gup Danise, nel 2018, motivava una condanna a 30 anni di carcere per omicidio volontario dicendo: “In preda a un raptus di rabbia ha preso un coltello da cucina e le ha inferto 46 coltellate”, forse di raptus non c’è proprio nulla. Oltre a parlarne in riferimento alle donne, è il caso che io riporti anche come il termine sia utilizzato in vicende in cui carnefice e vittima sono entrambe uomini. Ciò contribuisce a incrementare un uso errato del termine “raptus”, a prescindere dal sesso della vittima. Ne è un esempio il titolo di un articolo del 2015 del (ancora una volta per puro caso, non per mio accanimento) Il Mattino: “Raptus di gelosia, dà fuoco al rivale in amore”. Anche il filosofo Galimberti nel 2019 a La7 ha sostenuto come il raptus sia fanta psicologia, ovvero non esista. Esistono invece, secondo Galimberti, una mancanza di educazione e cultura, che portano alla formazione di uomini che crescono come bestie. Galimberti conclude chiedendo all’Ordine degli psichiatri di intervenire per dire come non esistano tempeste emotive.

Attraverso articoli che usano il termine di raptus per spiegare un femminicidio, viene ridotta o banalizzata la responsabilità di chi uccide una donna, e con ciò viene normalizzata la violenza. Il problema di fondo è che in Italia non si riconosce la specificità della violenza maschile sulle donne come violenza di genere.

Il testo di Trasatti di cui parlavo poche righe sopra, riporta anche come, secondo la criminologa statunitense Diana Russell, le vittime di femminicidio scontino il fatto di aver trasgredito al ruolo ideale di donna imposto dalla tradizione – quello della donna obbediente (Madonna) oppure sessualmente disponibile (Eva) – di essersi prese la libertà di decidere cosa fare della propria vita. La loro autodeterminazione è punita con la morte dagli uomini che sono loro più vicini – mariti, padri, fratelli.

Quando i media focalizzano l’attenzione solo sui sentimenti, sui disagi, sulle frustrazioni dell’uomo che ha compiuto violenza (per esempio dicendo: “Non poteva più vivere senza di lei”) e cancellano la vita e i desideri della donna vittima, il racconto finisce per incentrarsi su un unico punto di vista, che è quello del carnefice e finiscono per legittimarlo. Implicitamente, inoltre, si veicola l’idea che la vittima sia in qualche modo da biasimare perché, per esempio, ha fatto soffrire o ha tradito l’uomo che è diventato il suo assassino.

Quello che sostengono le organizzazioni attive nel contrasto della violenza sulle donne, insieme a osservatrici e osservatori del mondo dell’informazione, è che la violenza e l’uccisione di donne da parte di uomini, dentro o fuori le mura domestiche, siano da interpretare e comunicare come un problema sia criminale che culturale. La Federazione internazionale dei giornalisti ha stilato un decalogo per chiedere ai professionisti dell’informazione attenzione nel trattare senza preconcetti e distorsioni il fenomeno, rispettando la privacy delle donne e collocando la violenza nel suo contesto, con statistiche e informazioni accurate. Tra le raccomandazioni, si legge: “Utilizzare un linguaggio esatto e libero da pregiudizi. Per esempio, uno stupro o un tentato stupro non possono essere assimilati a una normale relazione sessuale […]. I giornalisti dovranno riflettere sul grado di dettagli che desiderano rivelare. L’eccesso di dettagli rischia di far precipitare il reportage nel sensazionalismo. Così come l’assenza di dettagli rischia di ridurre o banalizzare la gravità della situazione. Evitare di colpevolizzare in qualche modo la persona sopravvissuta alla violenza (‘Se l’è cercata’) o di far intendere che è responsabile degli attacchi o degli atti di violenza subiti”. Le organizzazioni attive nel mondo dell’informazione, insieme ai movimenti delle donne, riconoscono alla radice della violenza di genere un problema culturale e attribuiscono al linguaggio dei media un ruolo di primo piano nel produrre un cambiamento.

Un linguaggio spesso scorretto viene anche usato nei confronti di altre categorie come i migranti, i disabili, gli omosessuali… Consiglio il seguente link per chi volesse approfondire l’argomento http://www.parlarecivile.it/home.aspx. e concludo con una frase di Trasatti:

“Non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole”.


Autore: Gaia Bonomelli (Ospite)

Classe 1995. Laureata in sociologia all'Università di Milano Bicocca, al momento si sta specializzando in editoria e comunicazione digitale e visiva all'Università di Bergamo. Collabora da alcuni anni per alcune testate locali e ha condotto un suo programma di notizie riguardanti la bassa bergamasca. È volontaria in un centro contro la violenza sulle donne. I suoi interessi spaziano da tutto ciò che riguarda la condizione femminile nel mondo, a tematiche sociologiche, fino al mondo del cinema, ai viaggi e allo sport.


 
 
 

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