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La Rivoluzione


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Riflessioni ironiche e amare, nostalgiche e fredde, tra romanticismo e tenerezza, dignità e utopia.


La Rivoluzione. Quando ne sentii parlare per la prima volta ero più o meno un bambino, credo avessi circa otto anni, e non so come, forse qualcuno della mia numerosa famiglia aveva iniziato il discorso, venivo catapultato dalla fantasia nell'epopea della rivolta messicana, tra Pancho Villa e Zapata, affascinato dalla voglia di riscatto dei peones contro la tirannia della dittatura e dei ricchi proprietari terrieri.


Il mito della rivoluzione come forma, spesso violenta, di sommovimento radicale di un sistema ingiusto, mantiene una sua ragione forse ancora oggi, ma soprattutto da un punto di vista storico ha perso quella carica propulsiva e quella credibilità per cui intere generazioni di popoli nel mondo ne fecero una sorta di unità ideale, come speranza concreta di una vita diversa, più giusta, solidale, pacifica e prospera. Mi risulta praticamente impossibile negare che le grandi aspettative legate ai forti movimenti del novecento, dalla rivoluzione bolscevica a quella maoista, siano in gran parte, se non totalmente, andate deluse.


Eppure queste speranze e queste convinzioni hanno avuto una certa durata, nonostante tutto, se penso che ancora negli anni settanta del secolo scorso in Italia, esistevano organizzazioni politiche a sinistra del Partito Comunista, già allora su posizioni socialdemocratiche, che si definivano “sinistra rivoluzionaria” e che avevano un certo seguito tra i giovani, me compreso pur se per un periodo breve. In buona sostanza esse raccoglievano le inquietudini giovanili, la voglia e il bisogno di protagonismo che si manifestava, declinando il tutto in una forma organizzata e soprattutto in una ideologia certa, cioè indiscutibile e quindi protettiva. L'ideologia era un sistema di regole, pensiamo al marxismo-leninismo, che ben presto divenne stretto perché bloccato, chiuso nei suoi dogmi, impermeabile ai cambiamenti ma, proprio per questo, fragile nel reggere le evoluzioni della storia e nel leggerne le nuove istanze e bisogni. L'ideologia che ti dà sicurezza, risposte sicure senza porre troppe domande, che ti protegge e ti culla, come una mamma, una specie di infantilismo politico. Con ciò non voglio dire che l'idea rivoluzionaria, e le esperienze ideologicamente affini, dove restano attuali molti concetti a livello analitico, non abbiano prodotto progresso o forme di maggiore giustizia sociale, solo che hanno avuto quasi sempre il fiato corto incanalandosi presto in una sorta di conservatorismo, nel migliore dei casi, se non di autoritarismo.


Pensando agli anni giovanili, l'idea romantica della rivoluzione ci coinvolgeva totalmente, e anche un po' incoscientemente, togliendo forse troppo tempo al privato, all'affettività, all'aspetto ludico; ingenuamente credevamo davvero che la rivoluzione fosse “dietro l'angolo”, un concetto che ora fa sorridere, come non ci fosse un mondo complesso, tortuoso, sconosciuto, come se non esistessero poteri politici, economici e finanziari, di tali enormità da scoraggiare chiunque o comunque da valutare con più realismo. In più si sarebbe presto capito, nostro malgrado, che le convinzioni tanto sbandierate, per un discreto numero non furono motivo di scelte conseguenti, almeno in parte coerenti pur senza fare gli eroi, ma finirono miseramente in una accettazione acritica e comoda di una società fino ad allora aspramente osteggiata. Mi capita di ricordare, con ironia e un po' di rammarico, al tempo perso ascoltando certi capetti pseudo-rivoluzionari, finiti poi a far carriera in qualche multinazionale, tempo che avrei meglio utilizzato dedicandomi a frequentare giovani e avvenenti ragazze....ma tant'è, il tempo non ritorna e soprattutto ti cambia, sì ma come? In che modo rendere fruttuosa un'esperienza? In quale maniera sviluppare dei valori ideali che comunque mantengono, se uno ci crede veramente, un ruolo di assoluta e centrale importanza nell'evolversi della propria vita?


Il termine rivoluzione oggi non ha più quel significato romantico e appassionante di un tempo, per esempio tra le pagine di questo stesso blog è stato trattato per discutere di altri aspetti, come la rivoluzione ontogenetica e digitale, per non parlare della rivoluzione industriale che tra i cinquanta e i sessanta del novecento avrebbe sradicato quasi in maniera brutale la nostra secolare cultura contadina. Ho un nitido ricordo di un mio zio, contadino da sempre, costretto ad abbandonare la terra, già verso i cinquant'anni, per entrare a Milano in una fabbrica metalmeccanica: un trauma totale per migliaia di persone come lui, obbligate a cambiare vita e abitudini o costrette a emigrare.


La radicalità quindi resta, il termine cambia visione ma non perde il suo senso di rottura e, come sempre, coinvolge noi esseri umani in carne ed ossa, ci stravolge l'esistenza, ci colora diversamente le giornate, ci chiama a nuove responsabilità, nuove lotte, nuove prospettive; i grandi cambiamenti hanno a che fare con la nostra vita, personale e collettiva, incidono sull'affettività, sulle relazioni, sull'equilibrio interiore, persino sulla salute.


Le rivoluzioni hanno forse migliorato le società contemporanee ma il mondo corre più veloce, muta in continuazione, e non sempre purtroppo nel verso giusto. Al di là delle considerazioni storiche, pur se leggermente grossolane e generali di cui sopra, oggi mi sembra chiaro, per quel che riesco a capire, che i cambiamenti hanno un senso di progresso positivo se, partendo da un'analisi della realtà concreta, sono sorretti da una grande base ideale di valori condivisi e se sono aperti alla discussione continua, come forma di difesa contro la sclerotizzazione delle idee e il rischio di far passare ogni verità come assoluta.


L'assolutismo culturale è la porta che apre a tutte le degenerazioni e alle tragedie del genere umano, da quelle storicamente più recenti come fascismo, nazismo, razzismo, all'applicazione infame di un'idea di liberazione come quella comunista, passando per il terrorismo, al fanatismo religioso, persino quello meno grave e pericoloso, ma comunque per me negativo, delle varie mode di evasione, improbabili filosofie orientali, new age e quant'altro, il mito del corpo perfetto, l'arroganza che fa rima con ignoranza.


L'assolutismo culturale è anche il profitto come un valore, la ricchezza ostentata e illimitata che porta a nuove schiavitù, diseguaglianze inaccettabili, ferite profonde e micidiali alla natura, all'ambiente, alla nostra stessa possibilità di vita.

L'assolutismo culturale esalta la forza a scapito dell'intelligenza, il cinismo invece della sensibilità, esalta il machismo, odia le diversità di ogni tipo, che sia sessuale, etnico o anche di “abilità” fisico-mentale.


Ecco quindi che le ragioni per una rivoluzione culturale ci sono tutte, belle, chiare, evidenti, ma noi esseri umani siamo molto fragili, l'abbiamo dimostrato, abbiamo bisogno l'uno dell'altro, abbiamo bisogno di affetti, relazioni, gratificazioni, comprensioni, anche perdono o compassione, perché no?


La fragilità del genere umano è il limite ma anche la possibilità, la speranza; la nostra imperfezione paradossalmente è anche la chiave di volta per un progresso, se sappiamo imparare le lezioni della storia, se non perdiamo la memoria, se vogliamo capire i fenomeni che si generano dal punto di vista sociale e ambientale e, soprattutto, se non smettiamo di sognare.


Un sogno lucido, di tipo onirico, visionario, come un'utopia o una fede che ci unisce e ci riscalda.


Una consapevolezza di fare parte, anche senza capirlo bene, di un disegno, come il passaggio della nostra vita terrena da lasciare come segno per i posteri, pensando di dare un contributo verso la perfezione, quando il mondo come lo conosciamo non avrà più senso di esistere.


Sarà questo il Paradiso?



Autore: Carlo Calvi - Presidente C.A.S.


 
 
 

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