La società dei consumati
- Accorciamo le distanze

- 18 feb 2021
- Tempo di lettura: 8 min

La generazione dei democratici da poltrona incontra Orwell e Pasolini
“Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”.
- G. Orwell, 1984
Crea un certo sgomento sorprendersi a riflettere sulle parole di un defunto che ha scritto un’opera di invenzione più di un cinquantennio fa. Crea sgomento non tanto per ciò che tali parole portano con sé, tra i crepacci del tempo; parliamo dopotutto di un testo figlio del clima post-bellico: pensiamo sia condivisibile una certa dose di disincantato pessimismo tra un rigo e l’altro. Sono invece le corrispondenze a farci tremare. Quella sotterranea trama di richiami ed ecolalie, legami ancora integri che ricompongono ai nostri occhi lo spettro della verosimiglianza, man mano che il racconto evolve. Leggiamo e arriva ineludibile la folgorazione della presa di coscienza: “Queste pagine parlano di me, di noi, del nostro tempo”; poi il verdetto cala senza lasciare al dubbio nemmeno la possibilità di coagularsi nella mente: “Questa è attualità”.
È così che 1984 di George Orwell mi è balenato in testa all’indomani dei disastrosi scontri verificatisi lo scorso 6 Gennaio presso la sede del Parlamento a stelle e strisce, e il conseguente pugno di ferro mediatico che ha annichilito l’ormai ex-presidente della Repubblica americana Donald Trump. Ho sentito bussare all’anticamera della mia coscienza un’urgente necessità di contestualizzare tali eventi, di circuirli razionalmente con l’ausilio che solo i grandi testi letterari sanno offrire: l’ausilio di uno sguardo critico. Irrequieto, mi sono arrampicato sugli scaffali della mia libreria e ho scorso i titoli scritti sulle coste dei volumi stretti uno di fianco all’altro, fino a che mi è capitato tra le mani un opuscoletto striminzito e quasi sepolto dalla mole dei suoi compagni di scaffale. Un nome e una parola sono bastati a convincermi di essere sulla strada giusta: Pasolini e “antifascismo”.
Ma evitiamo di correre troppo: “per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo”, dice bene il Qoelet.
Innanzitutto, il romanzo di Orwell è un caso tra i più citati quando si vanno a toccare argomenti delicati quali l’assolutismo, la libertà, il potere. Mi pare però poco fruttifero far rientrare tutto il potenziale critico di questo testo sotto il comodo cappello della distopia, di una proiezione nel futuro di una visione tutt’altro che luminosa a cui Orwell ha affidato il suo presente. Assai più interessante, invece, risulta essere la riflessione che ci induce a compiere sulla nebulosa relazione tra una qualsivoglia istanza di potere e l’apparato comunicativo-informativo ad essa annesso. Il famigerato Grande Fratello, che nel romanzo personifica artificiosamente un reale regime totalitario, non è nient’altro che una messinscena di facciata, pura superficie al di sotto della quale si cela la più abietta delle maledizioni per uno stato sovrano, ossia la vacuità di senso. Tramite lo stratagemma di un volto ubiquo, il potere costruisce una geniale macchina dell’inganno, dando l’impressione di annidarsi in ogni angolo, perfino nella mente dei sudditi, e ingigantendo in questo modo la sua falsa pretesa di onniscienza. Non c’è scampo, a quanto si legge nella prima sezione del romanzo. A dire il vero, una siffatta impalcatura fondata su di un continuo bisogno di spettacolarizzazione di sé è più che mai onerosa in termini di sopravvivenza e prosperità sul lungo periodo: ha necessità di una manutenzione incessante, tanto ideologica quanto operativa. A questo proposito, le strategie sono molteplici, ma si può affermare che tutte siano preconfezionate secondo un sapiente accostamento e alternarsi di due soli ingredienti: tensione e semplificazione. Inventarsi una guerra inesistente, far proiettare il proprio volto sui teleschermi e gracchiare in continuazione da megafoni disposti in ogni dove sono efficaci dispositivi generatori di tensione: più l’individuo è a contatto con le sbarre, prima e più docilmente accetterà la prigione. Se poi aggiungiamo l’impossibilità di concepire un mondo che non sia prigionia e obbedienza, il gioco è fatto. Questo secondo fine viene perseguito attraverso una teologia della semplificazione, il cui più illustre bersaglio e adepto è l’informazione. Non solo, infatti, le notizie dei giornali vengono modificate a favore del regime, ma quest’ultimo condiziona, restringendola a livelli paradossali, la capacità umana di pensare ed esprimersi individualmente; in breve, manomette i due più importanti veicoli di elaborazione e fabbricazione di una prospettiva libera in quanto personale: il pensiero e il linguaggio. L’articolazione dei meccanismi attraverso cui il potere realizza la propria campagna di censura svela il genio creativo e narrativo di Orwell. Quale lettore, di fronte ad invenzioni come la Neolingua o il Bipensiero, non rimane esterrefatto? Eppure esse sono semplici esasperazioni di procedure che ogni totalitarismo concepisce tra le carte del suo mazzo diabolico, che concretizzano una distorsione della realtà, piegata sotto i colpi di un’interpretazione univoca e semplicistica, banalizzata a tal punto da racchiudere il mondo intero in un solo, limpido slogan (chi ha orecchie per intendere, intenda).
Prendiamo ad esempio la Neolingua: essa consiste in un’operazione di riduzione radicale del vocabolario individuale ad un esiguo numero di termini ritenuti leciti. Senza la possibilità di scelta tra una parola e un’altra, viene quindi meno la capacità dell’uomo di esprimere una narrazione soddisfacente del proprio mondo, che quindi sfuma nel grigiore dell’indistinto e del convenzionalmente stabilito. L’equazione a cui si affida il regime è elementare: minori possibilità di scelta si traducono in un cortocircuito del pensiero, obbligato a girare in tondo prima di incagliarsi definitivamente; l’ultimo passo è infatti la morte intellettuale, il crollo della fiducia che l’uomo riserva all’atto squisitamente umano del pensare liberamente: meno si pensa, meno si è portati a farlo. Risultato? Gli individui si disumanizzano progressivamente, discendono al rango di larve cieche e obbedienti, prive di quello slancio critico che si erge come strumento prediletto di messa in discussione e destabilizzazione dell’ordine vigente.
E qui arrivo a Pasolini. Precisamente, arrivo ad una serie di suoi interventi e articoli risalenti agli anni ’60 e ’70, ed oggi compendiati in una raccolta dal titolo Il fascismo degli antifascisti. La verve critica che contraddistingue la prosa pasoliniana ha qui il sapore dell’invettiva, come di un guanto lanciato a sancire l’inizio di un duello. Non c’è da stupirsi, in fin dei conti si sta parlando dello stesso Pasolini che ha sintetizzato l’essenza della sua vita in una frase che è grido di guerra e dichiarazione di poetica insieme: “Per me la possibilità di lotta è la cultura”. La presa di posizione dell’intellettuale è quindi già di per sé un atto eversivo, rivoluzionario nel suo porsi come selvaggia vocazione alla libertà, alla rinuncia ad essere comodamente domato da un ordine a cui non sente di appartenere. È scomodo, Pasolini. Scomodo perché la sua voce è quella di pochi contro molti, perché l’avversario è il Potere, perché non si piega ad una retorica ipocrita e ampollosa, ma sceglie di chiamare le cose con il loro nome. In poche pagine disossa la carcassa dello “stato di fatto”, guadagnando una lucidità di sguardo che a tratti disturba, fa male. Leggerlo mi ricorda quando, da piccino, mi immergevo in mare per acchiappare quel po’ di sabbia del fondale e dimostrare di valere qualcosa: più si va in profondità, più le orecchie fanno male e il cuore sembra gonfiarsi nel petto; riemergi compresso e intontito, ma i respiri che hai trattenuto, col sapore del sangue sulla lingua, non valgono i granelli che stringi nel pugno. Pasolini ci costringe ad un’apnea del pensiero, e il fondale che tocca sono le poche righe che abbiamo davanti.
Il Potere, a cui viene affibbiato un volto indefinito, esercita la propria natura di dominatore tramite un’omologazione repressiva, che ad onor del vero viene definita “forma totale di fascismo”. Allarghiamoci un istante. Pasolini è un acuto osservatore, dote questa di ogni buon pensatore. Gli anni della rinascita post-bellica vedono l’attecchire, in Italia, del modello capitalistico statunitense, soprannominato eloquentemente “società dei consumi”. È a quest’ultima che Pasolini si riferisce quando parla di fascismo: sotto una parvenza di democratica tolleranza, si nasconde il germe di una nuova tirannide, tanto famelica quanto subdola. Forte del suo innegabile fascino, essa seduce gli individui conducendoli a modificare radicalmente le strutture mentali alla base di comportamenti ed abitudini, inquinando le categorie del pensiero e del giudizio, uniformando le divergenze tra le intimità emozionali umane. Si è di fronte ad una mutazione antropologica irreversibile, che affetta il genoma della società fino a renderlo oggetto di un’omologazione su tutti i fronti, a partire da quello culturale. A farne le spese sono soprattutto le generazioni più giovani, identità in transizione fluttuanti in un vuoto di valori che ben si presta ad essere bacino di pesca privilegiato per gli arraffa-consensi, abili nello speculare su insofferenza e frustrazione per ingrossare le fila dei propri eserciti di votanti.
È disarmante notare quanto tale riflessione colpisca ancora, e con forse maggiore veemenza, le nostre coscienze di inquilini del terzo millennio. In fondo, non siamo poi diversi da quell’umanità mutante su cui Pasolini impernia il suo discorso. Dal nostro osservatorio abbarbicato sul versante ascendente del XXI secolo, siamo prima spettatori e poi immancabilmente complici dell’evoluzione incontrollata a cui la società dei consumi pasoliniana è andata incontro negli ultimi decenni. Fenomeni come la globalizzazione, la democratizzazione dei mezzi di comunicazione di massa e soprattutto l’avvento del nuovo mondo della rete, accompagnato dal parto dei social networks, hanno rotto gli argini entro cui placidamente essa serpeggiava, concedendole il privilegio di impaludare ogni zolla circostante, dal globale all’individuale. Fuor di metafora, quella che oggi consideriamo come la nostra realtà abituale non è altro che la stessa società consumistica esasperata e potenziata, che ha visto moltiplicarsi le proprie doti da millantatrice e consigliera fraudolenta: personalmente, non le attribuirei un appellativo neutrale ed innocente quale “società virtuale” o simili, ma tenderei verso un ardito ribaltamento della definizione pasoliniana, che da “società dei consumi” approda a “società dei consumati”. Immersi in un fluido in cui valori e identità scoloriscono e mutano al mutare dei giorni, in un presente perenne dettato dall’infiltrazione ininterrotta di immagini e notizie, ci convinciamo infatti di stare sulla sponda giusta del fiume del progresso, forti delle libertà che andiamo acclamando come conquista irrevocabile di una battaglia di cui decantiamo le gesta, i nomi, le vittorie. Davanti ad uno schermo, con le dita intente a pigiare instancabili, ci eleviamo ad araldi di una democrazia da poltrona, che a me tanto ricorda un grassoccio prete trafelato che dal suo pulpito scintillante d’oro predica la povertà e condanna i peccatori, prima di rincasare serafico alla sua mensa imbandita di prelibatezze. La tolleranza di cui tanto ci riempiamo la bocca non è figlia di una reale tutela delle divergenze, ma di un’omologazione priva di discernimento; la cappa virtuale che avvolge le nostre esistenze innesta, alimenta ed acuisce una prospettiva polarizzata del mondo, quasi manichea nella prassi: l’opinione di ciascuno si assolutizza a legge universale, tranciando di netto ogni ponte di dialogo, fondamento di una crescita prima umano-individuale e poi comunitaria.
Così, quanti tacciavano di fascismo e postura dittatoriale il presidente Trump, temendo un nuovo “mille e non più mille”, non solo non si sono scomposti all’indomani dell’atto censorio perpetrato ai suoi danni da parte dei maggiori magnati del mondo social, ma hanno addirittura esultato, inneggiando al ripristino della democrazia e all’abbattimento di un potenziale Führer in fasce. Al di là di ogni ragionamento strettamente politico, e pur riconoscendo nel Tycoon (famigerato appellativo dell'ex presidente americano) un grosso nodo di criticità, vorrei sottolineare che Donald Trump ancora oggi rappresenta, secondo i meccanismi democratici salvaguardati dal ricorso alle urne, una porzione tutt’altro che trascurabile dell’elettorato statunitense: la sua presenza sui social garantisce la rappresentanza di questa fetta ingente di popolazione, che in lui ha riconosciuto e riconosce tuttora il portavoce delle proprie esigenze e necessità. Prima di elogiare qualsiasi provvedimento coercitivo, mi piace spendere qualche tempo a considerare il prezzo che la vera democrazia, cioè il popolo in carne ed ossa, si trova a scontare. Silenziando Trump, gli oligarchi della rete social hanno dato adito ad un ulteriore inasprimento della polarizzazione tra schieramenti ideologici già fin troppo in rotta, ne hanno ghettizzato una parte rassicurando l'altra della propria convinzione di trovarsi nel giusto. Democrazia non è tagliare la testa al serpente, perché in ogni caso a farne le spese è sempre la coda.
Autore: Alessandro Ghidini


Commenti