La violenza maschile sulle donne: da dove deriva, come se ne può uscire.
- Accorciamo le distanze
- 8 set 2021
- Tempo di lettura: 10 min
Aggiornamento: 9 set 2021

Cultura dello stupro, colpevolizzazione della vittima e mascolinità tossica sono i tre pilastri su cui si regge l’oppressione patriarcale.
Nella cultura patriarcale tutti siamo immersi nella narrazione che vede gli uomini in cima alla scala gerarchica e che afferma il “diritto di nascita” a esercitare il loro controllo su tutto ciò che si trova sui gradini più bassi. Ciò comporta l'esistenza di quelle che vengono considerate delle “responsabilità naturali”, derivate da costrutti sociali talmente radicati da farle sembrare tali. Tra queste, l’idea di essere gli unici in grado di provvedere alla propria famiglia. Si tratta di responsabilità autoimposte che giustificano i privilegi degli uomini riscontrabili in vari ambiti, pensiamo ad esempio alle continue disparità perpetrate nel mondo del lavoro.
Il linguaggio stesso è lo specchio del privilegio, com’è dimostrato dai numerosi detti e proverbi che indicano tutto ciò che è femminile come negativo, o dal rifiuto di riferirsi a una donna in ambito professionale con il suo titolo, rivolgendosi a lei solo con signora o signorina. Se dal punto di vista maschile questi sono dei privilegi, dal punto di vista di chi sta dalla parte opposta sono costanti micro aggressioni, ossia abusi quotidiani normalizzati che dimostrano come la violenza sulle donne abbia molte sfaccettature.
Un esempio di cui si è molto sentito parlare nell’ultimo periodo è il catcalling, ossia quelle molestie che avvengono per strada e nelle aree pubbliche. Si tratta di fischi, colpi di clacson, “apprezzamenti” urlati, saluti volgari e avances sessuali. Questo tipo di molestie raramente sono punite, spesso vengono prese alla leggera. Emblematico il caso di cronaca recente, in cui una giovane molestata sull’autobus a Genova in seguito alla denuncia del fatto si sente rispondere dall’ufficiale: “Lei è davvero una bella ragazza”.
Tutte queste violenze sono il segnale della disparità nella distribuzione del potere tra i generi e sottolineano con forza quello che un uomo può fare e che una donna è costretta a subire. Il corpo della donna, costantemente oggettificato dalla cultura patriarcale, è visto come il terreno sul quale esercitare tale potere, le microaggressioni ne sono un costante promemoria.
All’estremo tragico di questo privilegio e dimostrazione di forza si trovano le macroaggressioni: molestie sessuali, abusi, stupri e femminicidi. Conosciamo queste storie fin troppo bene, si tratta di atti violenti spesso attuati per sottolineare o ristabilire quel potere che si crede sia in bilico. Un no è inaccettabile e lede la propria identità di maschio, un rifiuto o una presa di posizione contraria non permette di esercitare il controllo e dimostrare dunque di essere un vero uomo. Ed essere un vero uomo è quello che permette di diventare parte della comunità al vertice della scala gerarchica, quella dei maschi bianchi eterosessuali e cisgender (persone la cui identità di genere coincide con il sesso biologico).
Far parte di questa comunità non è una cosa semplice e scontata. Per diventare, ma soprattutto per rimanere, un membro di tale élite bisogna sempre dimostrare di meritarselo, chi non si conforma allo standard normativo e sessuale viene eliminato dal gruppo e merita di essere trattato come coloro che si trovano nei gradini più bassi, dunque come le donne. Questo atteggiamento è rispecchiato dagli insulti rivolti a chi non si conforma e rivela di nuovo il sessismo quotidiano: infatti, un uomo che mostra una qualche debolezza viene definito una “femminuccia”.
Da questo punto di vista la posizione di ciascun membro è sempre a rischio. Inoltre, all’interno di questa comunità si sottostà a una costante competizione per capire chi è più virile dell’altro, basata tendenzialmente sulla prestanza sessuale.
Questi meccanismi sono forse ancora più evidenti nelle realtà più piccole in cui venire esclusi dal gruppo vuol dire essere alienati da tutta la comunità. Di fatti, nei piccoli centri è molto diffuso il fenomeno del bomberismo, ossia quell’atteggiamento machista, sessista e xenofobo che si instaura in gruppi chiusi, caratterizzati da misoginia e atteggiamento sessuale predatorio. Questo fenomeno è diventato particolarmente evidente sui social su quelle pagine che inneggiano alla “vita da bomber”, al maschio alpha e al disprezzo per tutto ciò che è intellettuale, femminista e di sinistra, d’altronde si tratta di una sottocultura criptofascista.
L’atteggiamento da branco e la competizione sono due facce della stessa medaglia, promotrici di un messaggio comune: ciò che è diverso va eliminato e il gruppo, o per dirla meglio il patriarcato, protegge solo chi si conforma. Infatti, il branco entra in gioco a difesa dei propri membri quando si vede costretto a ristabilire lo status quo e a riaffermare la propria posizione di potere, anche in caso di violenze. E questa protezione può venire sia dai membri forti del gruppo, cioè gli altri uomini, sia dalle donne alpha, quelle donne che si conformano alle norme patriarcali. I casi di cronaca in cui chi ha perpetrato violenza viene protetto dalla sua comunità sono numerosi, si passa dalla recente difesa social di Grillo nei confronti del figlio ai titoli dei quotidiani, in cui troviamo “lo stalker gentile”, “l’irreprensibile” signore di turno che uccide la propria compagna “per amore” e le descrizioni di femminicidi come “delitti passionali”. Questo porta a un’attenuazione dell’atto violento, creando una costante romanticizzazione di gesti brutali.
Tutto ciò dimostra quanto le leggi patriarcali siano radicate nel tessuto sociale e stiano alla base della cultura dello stupro, nella quale non solo le violenze e il controllo sui corpi femminili vengono normalizzate ma spesso il carnefice viene giustificato.
Giù le mani dalle vittime: il victim blaming e lo slut shaming spiegati
Italia, 1999. Durante un processo per stupro, la Corte di Cassazione stabilisce che il reato di violenza sessuale non sussiste poiché Rosa, la vittima, indossava dei jeans al momento del rapporto. Cosa c’entrano i jeans? Ebbene, secondo la Corte di Cassazione, i jeans sono un indumento “non sfilabile, se non con la fattiva collaborazione di chi li porta”. Basta questo a far cadere l’accusa di violenza e a determinare la consensualità del rapporto; bastano un paio di jeans per far dire ai giudici che Rosa non si è chiaramente opposta alle avances del suo istruttore di guida quarantacinquenne. Basta questo a far annullare la già ridicola pena di due anni e dieci mesi e renderlo di nuovo un uomo libero. Questa decisione del tribunale ebbe una risonanza così forte nella società italiana dell’epoca che ad oggi è ancora nota come “la sentenza dei jeans”.
Irlanda, 2018. Un ragazzo viene assolto dall’accusa di violenza sessuale perché la vittima indossava un tanga. Cosa c’entra il tanga in quest’altra storia? Ebbene, Elizabeth O’ Connell, l’avvocata che ha difeso lo stupratore, ha suggerito che il fatto che la ragazza indossasse un tanga in pizzo, prontamente mostrato in aula, fosse segno inequivocabile della volontà della giovane di fare sesso. E la corte ha finito per darle ragione.
In entrambe le sentenze ci sono due ragazze, due vittime, a cui viene negata giustizia a causa di quello che indossavano al momento della violenza. Il fenomeno che spinge a colpevolizzare la vittima è definito come victim blaming che, in questi due specifici casi, si presenta sotto forma di slut shaming.
Il concetto di victim blaming è relativamente recente: l’espressione venne coniata nel 1971 da William Ryan, professore di psicologia a Boston, nel suo libro Blaming the victim, scritto in risposta al saggio del senatore statunitense Daniel Patrick Moynihan The Negro Family: The Case for National Action, pubblicato nel 1965. Ryan sosteneva che le teorie del politico sulla povertà intergenerazionale dei neri e la formazione dei ghetti attribuissero erroneamente la responsabilità della povertà al comportamento e ai modelli culturali dei poveri stessi. Fare victim blaming sarebbe, dunque, un escamotage per semplificare un fenomeno complesso, in questo caso quello delle disuguaglianze sociali ed economiche e per illudersi che basti seguire le “regole” per non incappare in spiacevoli incidenti, che essi siano la povertà o essere stuprate.
L’espressione ha successivamente inziato ad essere utilizzata in ambito legale, oltre che nei processi riguardanti le vittime di stupro, anche nel contesto dei crimini di odio, nel mobbing e nella violenza domestica.
Per quanto riguarda il concetto di slut shaming, traducibile in italiano come “stigma della puttana” o “umiliazione della puttana”, nasce nell’ambito della filosofia femminista ed è una delle tante forme che può assumere il victim blaming. Lo slut shaming consiste nel mettere in atto una serie di atteggiamenti volti, appunto, a colpevolizzare una donna per dei comportamenti e desideri sessuali che si posizionano al di fuori di ciò che è considerato normale o tradizionale in una società patriarcale. Tra questi “atti oltraggiosi” figurano la scelta di indossare un abbigliamento sexy, il ricorso all’aborto o alla pillola del giorno dopo, e persino l’essere aggredite e violentate sessualmente.
Le conseguenze di queste pratiche sociali sono devastanti: si parla di vittimizzazione secondaria, ovvero di un ulteriore trauma che le vittime subiscono per non essere adeguatamente credute e supportate. Esistono diverse sfumature di vittimizzazione secondaria: dalla mancanza di sostegno di amici e parenti, alle domande poste in maniera inopportuna dalle forze dell’ordine e dai medici, fino all’organizzazione del processo in maniera non adeguata.
Anche i media, sia quelli tradizionali che quelli digitali, contribuiscono fortemente alla vittimizzazione secondaria e a condizionare l’opinione di chi legge o ascolta. Uno dei casi più eclatanti degli ultimi anni è quello del titolo de Il Giornale “Il gigante buono e quell’amore non corrisposto”, riferito all’assasinio di Elisa Pomarelli avvenuto per mano di Massimo Sebastiani, come se l’indisponibilità di lei ad avere una relazione potesse essere un motivo vagamente valido per essere uccisa. Tuttavia, è bene far luce sulle realtà femministe presenti in particolar modo nel mondo digital, che si occupano di linguaggio e sono attive nel promuovere una narrazione che non renda la vittima responsabile di ciò che le accade.
Il victim blaming e lo slut shaming sono figli di una società maschilista e capitalista, in cui ogni persona è considerata come la diretta responsabile di qualsiasi cosa possa accadere; questo modo di concepire la società viene definito dai sociologi odierni come Teoria del mondo giusto, in cui è “giusto” ciò che corrisponde alle aspettative sociali e si sottopone al controllo delle rigide norme patriarcali, mentre tutte le azioni che tradiscono queste aspettative sono legittimamente punibili.
La colpevolizzazione della vittima è dunque funzionale e necessaria allo status quo, perché crea una sorta di impasse sociale in cui chi si trova in alto è perché se l’è meritato e resta lì, mentre chi è in basso è destinato a scendere.
La mascolinità tossica
Il femminismo o più propriamente i femminismi sono pratiche di liberazione che non riguardano solo ed esclusivamente le donne. Il sistema patriarcale non agisce solo sulla mente e sul corpo femminili ma anche su quelli degli uomini: l’uomo, per essere un vero uomo, deve essere eterosessuale, cisgender, deve essere forte e non lasciare trasparire le proprie emozioni. Tutto ciò che esula da questo schema viene condannato in quanto tradizionalmente legato alla sfera femminile e quindi considerato debole e particolarmente esecrabile quando si manifesta in un uomo.
Per sistema patriarcale si intende un vero e proprio sistema di oppressione basato su stereotipi e rigidi ruoli di genere che agisce sia sugli uomini che sulle donne, ma in maniera molto diversa. Assegna ad entrambi un ruolo da ricoprire nella società: alla donna il focolare e la cura della famiglia, all’uomo il ruolo di guerriero, di procacciatore del cibo, di lavoratore. Se per il patriarcato le donne devono essere invisibili, gli uomini devono invece godere delle luci della ribalta, a patto che si conformino al ruolo che viene loro richiesto.
Il 15 giugno 1979 esce il singolo dei Cure Boys Don’t Cry, i ragazzi non piangono. La canzone parla di un amore finito, di come il protagonista abbia capito di aver commesso dei grossi sbagli nella relazione ma gli sia impossibile parlarne chiaramente e piangere proprio perché è un ragazzo, e i ragazzi non piangono. I ragazzi non devono piangere mai. Le emozioni, in particolare il pianto che ne è la manifestazione fisica per eccellenza nonché prova tangibile di vulnerabilità, sono tradizionalmente relegate alla sfera femminile. Le donne sono emotive, quindi non possono essere razionali, e sono proprio queste emozioni a fare di loro delle isteriche. Le emozioni sono un segno di vulnerabilità, ovvero di debolezza. L’uomo, che invece deve essere forte e seguire il paradigma del guerriero, non può permettersi di essere in balia delle emozioni e quindi non deve, non può, piangere. L’unica manifestazione emotiva concessa all’uomo è la rabbia, l’aggressività, proprio perché tipica della figura del guerriero. Mentre non si può perdonare un uomo che piange e dimostra empatia, perché in un qualche modo si sta rendendo femminile, si può e si deve perdonare un uomo che ha reazioni aggressive e che sfoga le proprie emozioni nella rabbia. Perché questo è da uomini, è così che un uomo si deve comportare. È così quindi che si tendono a giustificare i comportamenti più o meno violenti maschili nei confronti delle donne: perché gli uomini sono fatti così, so’ ragazzi o boys will be boys come canta Dua Lipa.
Sebbene nessun uomo si riconosca nel modello del maschio violento stupratore, il modello maschile egemone è ancora di natura squisitamente patriarcale e lo vediamo ogni giorno anche nel modo in cui gli uomini interagiscono fra di loro.
Il cameratismo è una delle conseguenze più emblematiche della mascolinità tossica o della mascolinità egemone: ricordiamo che quando parliamo di mascolinità tossica non si intendono comportamenti devianti che quindi si collocano al di fuori della norma sociale, ma al contrario di comportamenti considerati normali ma nocivi per le altre persone: il modello di mascolinità tossica è senza dubbio quello egemone.
Il cameratismo è la mentalità del branco, è la cultura degli spogliatoi. Il cameratismo è l’esatto opposto della sorellanza: mentre la sorellanza è una pratica di solidarietà femminile che sfida il patriarcato e riconosce l’altra, la vede e distrugge l’invisibilizzazione a cui sono sottoposte le donne e più in generale tutte le persone che non aderiscono al modello maschile egemone (ricordiamo l’adagio di Non Una Di Meno: “sorella io ti vedo, sorella io ti credo”), il cameratismo è un esercizio di mantenimento del potere dello status quo. Nel cameratismo non è importante vedere e riconoscere l’altro come individuo, ma è importante conformare le individualità a un preciso standard per poter imporre una mentalità comune, un agire di gruppo. Chiunque si ribelli è un
traditore: tradisce il patriarcato, tradisce il maschile e non è un vero uomo. Fare ciò significa esporsi a diversi gradi di violenza e rinunciare al proprio privilegio.
Per uscire da questo tipo di mentalità è necessario che gli uomini parlino fra di loro e riconoscano di avere un problema. È necessario che insieme distruggano il modello maschile egemone e creino nuovi modelli, in cui le persone possano essere libere e non oppresse da un preciso spazio entro cui stare, agire, pensare. Le pratiche femministe e in particolare, le pratiche di liberazione queer sono molto utili a smantellare i vecchi modelli e fornirne di nuovi. Per poter compiere questo passo è prima necessario, infatti, abbandonare il binarismo di genere uomo/donna e la rigida distinzione fra ciò che dovrebbe fare ed essere una donna e ciò che dovrebbe fare ed essere un uomo: la rivoluzione femminista e la distruzione del patriarcato deve essere la liberazione di tuttǝ.
Autore: Il femminismo tradotto
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