Le rose di Pantani
- Accorciamo le distanze
- 8 mar 2023
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Le rose che attendevano Pantani...ma piene di spine e sole di dolore…
dal podio del mondo alle ferite mani…
Questi versi, e il titolo, sono estratti di una canzone del 2006, compresa nell'album “La scoperta dell'America”, con musica di Claudio Lolli su testo del poeta Gianni D'Elia.
Marco Pantani è stato un corridore ciclista molto famoso negli anni novanta del secolo scorso, quando infiammò le folle con le sue imprese leggendarie, vincendo Giro e Tour uno dopo l'altro nel 1998, ma soprattutto, attraverso il suo modo di correre, riportando uno sport come il ciclismo alla sua immagine poetica originaria, fatta di fatica, temerarietà, coraggio, avventura.
In quegli anni, e anche in quelli precedenti, nelle grandi corse a tappe spopolavano campioni come lo spagnolo Indurain, l'americano Lemond, il tedesco Ulrich; erano corridori molto dotati fisicamente, con un modo di correre da passisti, molto forti a cronometro e in grado di difendersi benissimo in salita, ma inadatti a creare le vere emozioni che solo le grandi imprese sanno dare, quasi costruiti in laboratorio, con quello stile noioso e prevedibile che sottolineava le loro vittorie.
Poi, al Giro d'Italia del 1994, ecco arrivare lui, Marco Pantani, uno sconosciuto ventiquattrenne romagnolo di Cesenatico, piccolo, esile, con una precoce calvizie, ma due gambe esplosive e un cuore ben oltre l'ostacolo: un lampo nel buio che sbaraglia il campo e spariglia l'ordine costituito. Dopo avere vinto sotto la pioggia battente, lanciandosi coraggiosamente in una folle discesa su Merano, il giorno successivo stupisce il mondo inerpicandosi sulla terribile salita del Mortirolo, un'erta lunga, dalle pendenze sconcianti, attacca i “migliori “ e li stronca uno ad uno: il suo capitano Claudio Chiappucci, sua maestà Miguel Indurain, Gianni Bugno, il russo maglia rosa Eugevni Berzin; con un'azione leggendaria va a prendersi il gruppetto di fuggitivi, prende fiato un minuto e poi li stacca tutti, arrivando solo al traguardo dopo avere valicato anche l'Aprica e il Santa Cristina: è nato il mito di Marco Pantani, “il Pirata”.
Da quel preciso momento inizia la sua vera carriera e la sua nuova vita, che dopo dieci anni di imprese straordinarie e di altrettanta sfortuna e incredibile odio, si concluderà con la sua tragica morte il giorno di San Valentino del 2004, in una anonima camera d'albergo di Rimini, disteso esanime sul letto, solo come un cane, ufficialmente, ci diranno, per un'overdose di cocaina, aggiungendo un'ombra alle già tante, ambigue e sinistre, piombate come avvoltoi rapaci sulla fragilità e la sensibilità di un uomo scomodo, fuori dagli schemi di un sistema perverso e corrotto.
Il ciclismo di quegli anni era impregnato di doping, con sostanze sempre più sofisticate e pericolose studiate in oscuri laboratori, i corridori, anche a volte senza saperlo, erano strumenti funzionali a un'industria malata, con sponsors avidi, cinici, ingordi di guadagni sulla pelle degli atleti, costretti a ritmi forsennati, a una programmazione di impegni agonistici senza soluzione di continuità, dati in pasto a una tifoseria forse cieca, forse inconsapevole o forse solo autenticamente, ma anche ingenuamente, appassionata.
Marco, dopo le imprese al Giro, pur non ancora in grado di vincerlo, o forse non ancora convinto di ciò, in quello stesso 1994 va al Tour de France e, nella più importante vetrina ciclistica mondiale della più antica e prestigiosa delle corse a tappe, appena la strada comincia a salire sui Pirenei o sulle Alpi, si alza sui pedali e scatta, una, due, tre volte, lascia i compagni di fuga o di avventura, e si invola verso i traguardi, frantuma i record nelle ascese, entusiasma, ben oltre l'orgoglio nazionale, anche il competente ed esigente pubblico francese, sfatando la convinzione e l'ironia di Paolo Conte sui “francesi che si incazzano” quando vinceva Gino Bartali. Ed è proprio questo che entusiasma in lui: nel momento in cui il ciclismo è prigioniero di una fredda programmazione, di una tecnologia esasperata, di una tattica studiata a tavolino, di sporchi traffici, di campioni creati in laboratorio, egli ritorna a correre come ai tempi eroici di Coppi e Bartali, dà battaglia sul suo terreno, attacca in salita seguendo il suo istinto, rischia sempre sulla sua pelle, si abbandona generosamente all'ebbrezza delle imprese più epiche e indimenticabili, che sembrava impossibile poter rivivere ai tempi attuali.
C'è già qui, a mio parere, un aspetto importante per considerare la “diversità” del Pirata, rispetto a tutti gli altri ciclisti di quel periodo: egli non rispettava le regole! Chi era questo ragazzo che non stava in gruppo? Perché correva con il cuore, senza il computer in testa come tanti suoi colleghi? Perché rompeva gli schemi precostituiti di un ciclismo che sfornava campioni programmati, alti, belli, atletici, mentre lui era insignificante, se non quando inforcava la bici ed allora diventava un gigante? In realtà il suo fisico era perfetto per uno scalatore, leggero e potente allo stesso tempo, piccolo e agile, capace di reggere rapporti durissimi sulle tornate più impervie, eppure rappresentava una figura del passato, secondo la maggioranza, legata a uno sport finito, non più al passo con i tempi di un ciclismo moderno, al punto che allora i grandi Giri si vincevano in impalpabili corse a cronometro, prive di pathos, relegando le grandi salite in una logica residuale e trasformate con il tempo in enormi stradoni, che spianavano nei lunghi tornanti, riducendone le difficoltà. Marco Pantani “il Pirata” invece, quando la strada saliva, gettava al vento la bandana che gli copriva il cranio calvo, da qui la nascita del suo soprannome, e volava via con scatti secchi come stilettate finché gli avversari non venivano schiantati, costretti a regolare le loro cadenze con ritmi più consoni alle loro possibilità. Le folle impazzivano per lui, anche la gente non appassionata veniva coinvolta in questo entusiasmo, gli ascolti e le visioni delle sue imprese, per dirla con le parole di un altro leggendario personaggio quale era lo storico telecronista Adriano De Zan, a cui la voce si incrinava nel commentarle, raggiungevano livelli da record.
Dopo lo schioppettante esordio però succedono cose strane, molto strane, forse casuali, ma certamente molto, molto strane. Non ricordo se fosse il 1995 o il 1996 quando, da favorito al Giro d'Italia durante una tappa in Campania, Pantani si vide attraversare la strada, proprio quando passa lui tra tutto il gruppo!, da un gatto o un cane, procurandogli una rovinosa caduta e obbligandolo al ritiro. A Ottobre del '96, durante la Milano-Torino, che è l'ultima gara del calendario e tra le più antiche della storia del ciclismo mondiale, Marco è lanciato tutto solo ad altissima velocità in una discesa quando, dopo una curva cieca, si trova davanti una macchina che sta salendo nella direzione contraria: lo schianto frontale è di una inaudita violenza, il corridore viene raccolto in gravissime condizioni con una gamba maciullata e traumi diffusi, quasi in fin di vita. Come è possibile in una gara ufficiale che possa succedere una cosa del genere? Dove erano le staffette, le automobili degli organizzatori, la polizia stradale? E soprattutto: chi di questi ha mai risposto, anche penalmente, per le sue responsabilità? Fatto sta che il Pirata si ritrova in ospedale, viene operato, viene scongiurato il peggio, ma una gamba non c'è più, non è più la stessa, fracassata, sfilacciata, è impossibile, dicono tutti, ritornare a fare l'atleta, forse anche ad avere una normale postura, camminata, addirittura autonomia di movimento. Per quasi due anni Marco lotta contro tutto e tutti, certamente almeno quelli che non lo amano, sfida ogni certezza medico-scientifica, sopporta sedute di fisioterapia dolorosissime e, incredibilmente, si rimette in bicicletta, ricomincia ad allenarsi sempre più duramente fino a che non si ripresenta al via nel 1998, compiendo le mirabili imprese già accennate precedentemente con le vittorie al Giro e al Tour, nello stesso anno, come solo un numero di corridori nelle dita di una mano, fra gli altri Coppi e Merckx, erano riusciti a fare nella storia precedente del ciclismo.
Secondo me questo è un altro aspetto molto significativo nel sottolineare la diversità di Pantani nel confronto con gli altri, oltre il suo modo di correre: la grande passione, la tenacia, la convinzione di poter essere un esempio positivo nello sport come nella vita, un riferimento per i giovani, la consapevolezza di sentirsi responsabile di un'idea nuova e antica nello stesso tempo, fatta di coraggio, lealtà, rispetto.
Spesso capita di sentire commenti sullo sport come metafora della vita, altre volte riducendolo a puro passatempo, a un fatto ricreativo o, peggio ancora, a un momento di puro sfogo per masse di tifoserie un po' frustrate o forse anche violente; io penso che, per certi versi, esso sia la vita stessa, ne faccia parte in tutte le sue componenti, perché ci trovi la passione, l'emozione, la contesa, il conflitto, ma anche la sfida a sé stessi, ad essere rispettosi degli avversari, che sono però anche compagni di fatica e di lotta e quindi di condivisione, a misurarsi con lealtà, a riconoscere i propri limiti.
Il padre delle Olimpiadi moderne, il pedagogo e storico francese Pierre De Coubertin ha reso famoso il proprio motto secondo cui “l'importante è partecipare”, ma questa sacrosanta verità è stata a volte confusa con una sostanziale mancanza di agonismo nella contesa sportiva: che stupidaggine! In qualsiasi gara l'agonismo è fondamentale, non avrebbe senso il contrario, altra cosa è partecipare con lealtà e impegno e, soprattutto, è bene ricordare come le Olimpiadi e lo sport in generale siano ragione di Pace e fratellanza tra i popoli.
Queste considerazioni hanno una pertinenza con la storia di Marco Pantani perchè egli è stato un uomo vittima di un sistema sportivo che aveva perso queste prerogative, al punto da trascinarlo alla propria autodistruzione. Quando, dopo i fasti del '98, e mentre sta dominando con la gente ai suoi piedi il Giro d'Italia 1999, a Madonna di Campiglio viene fermato per precauzione sanitaria, non per doping, avendo trovato nel suo sangue valori lievemente alti di ematocrito, il mondo crolla su di lui, e su tutti noi. Questa vicenda, ancora oggi dopo quasi 24 anni, resta velata, se non coperta, da molti lati oscuri: irregolarità nella gestione dei prelievi del sangue, incongruenze con analisi precedenti e immediatamente successive, sospetti con interessi nel mondo delle scommesse clandestine di gestione mafiosa.
Perché questo ragazzo è così preso di mira? E' forse fastidioso il suo modo di vincere, il suo schierarsi contro il doping? Tutte le sue drammatiche vicende, precedentemente raccontate, sono frutto solo di sfortuna o è pure lui colpevole e connivente con un sistema malato? E se così fosse, perché allora il sistema stesso lo abbandona e lo isola, visto che si alimenta proprio sulle imprese poco pulite di certi “campioni”? Come molti suoi colleghi di allora, ma con colpe molto più gravi, Marco avrebbe potuto aspettare un po' e riprendere ipocritamente a correre come se niente fosse, anzi per lui sarebbero bastate un paio di settimane, invece egli vive la vicenda come un affronto, si sente in debito con i fans, teme che lo percepiscano come un traditore, molti lo abbandonano eccetto i milioni di tifosi che lo amano, cade in una depressione pesante che, purtroppo, a parte qualche momento di gloria, gli sarà fatale.
Un anno dopo riesce a riprendere la bicicletta, torna al Giro e, dopo avere recuperato pian piano in corsa una condizione decente, dà ancora spettacolo sulle Alpi favorendo l'affermazione finale del compagno di squadra Garzelli. Al Tour dello stesso anno la gente appassionata di tutto il mondo lo aspetta, vuole rivivere la magia e l'emozione delle sue imprese, vuole esaltarsi e commuoversi ancora vedendo questo omino alzarsi sui pedali quando la strada si inerpica, l'aria diventa rarefatta, la vegetazione lascia spazio a un ambiente più brullo e roccioso. Marco lo sa e non tradisce: sul Mont Ventoux, il monte calvo, un ambiente quasi lunare, solo sole a picco, pietre e deserto, dove molti anni prima l'inglese Tommy Simpson trovò la morte e perfino il grande Eddy Merckx collassò in debito di ossigeno, egli scatta più volte fino a fare il vuoto; la maglia gialla in quegli anni, sette Tour consecutivi! (poi toltigli perché trovato pieno di doping come un uovo), è sempre sulle spalle del cowboy texano Lance Armstrong che, dopo averlo ripreso, ne accompagna la vittoria al traguardo. La folla è tutta per il Pirata e l'americano, molto infastidito, dichiarerà di averlo lasciato vincere, ma anche di avere sbagliato a farlo: non sopporta la popolarità di Pantani e vuole umiliarlo. Marco risponderà solo con i fatti e, qualche tappa dopo a Courchevel, staccherà tutti compreso il borioso americano che non riuscirà a tenergli la ruota.
Sarà questa l'ultima sua grande impresa, negli anni successivi si sprigionerà un'incredibile campagna di odio e fango, con accuse e processi sportivi e perfino penali, senza alcuna verità, che a poco a poco sgretoleranno l'animo fragile e sensibile di un grande campione e di un grande uomo, il quale, forse lasciato troppo solo, forse tradito dalle proprie debolezze, troverà fatale rifugio nella cocaina e nell'autodistruzione. La sua storia ha ancora molte pagine che devono essere scritte e solo il tempo, speriamo non troppo lungo, farà luce sulle colpe di chi per interesse, avidità, invidia, ha voluto uccidere un eroe, troppo umano per essere trattato da Dio, e però così vero da diventare indimenticabile per l'eternità.
“Marco vola sulla bici leggera....l'ultima tappa è quella che è più vera ..tu te ne vai dal falso di quest'era...Marco vola sulla bici leggera”
Autore: Carlo Calvi
Articolo appassionante, mi ha fatto rivivere con emozione le mitiche imprese del grande "PIRATA"! Grazie all'autore