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Phobos: quando la paura è indotta e ostacola la nostra vita




Conoscere la paura, accettarci e curarci


Si narra nella mitologia greca che Phobos fosse uno dei figli di Ares, il dio della guerra, e di Afrodite, dea dell’amore. A ogni battaglia che il dio della guerra affrontava, i suoi figli lo seguivano seminando panico e distruzione. Deimos, fratello di Phobos, portava la guerra mentre quest’ultimo era portatore di paura.

Il suo tempio più importante era a Sparta; gli spartani lo invocavano prima di ogni guerra per propiziarselo a scapito dei nemici.


La paura è l’emozione più antica che accomuna tutte le specie, proprio perché è fondamentale per sopravvivere; appartiene alla sfera delle reazioni fisiche e mentali che attiviamo quando siamo in presenza di un pericolo o di fronte a un rischio: si tratta di una risposta appropriata.


Quando invece parliamo di fobia, solitamente facciamo riferimento a una paura eccessiva di fronte a uno stimolo oppure a un’insieme di reazioni quali paura, ansia anticipatoria ed evitamento che influenzano e limitano la vita della persona, rappresentando un vero e proprio disturbo fobico.


I disturbi di tipo fobico, tuttavia - e di tipo mentale, solitamente - limitano l’individuo nella propria libertà di pensiero, di scelta, di movimento e lo imprigionano nella gabbia della paura.


Tutti noi abbiamo paura di qualcosa e, nel linguaggio comune, essa può diventare sinonimo di angoscia, ansia, panico, spavento, fobia, terrore ecc. Tutte parole accomunate dal concetto di pericolo e mosse dal desiderio di evitarlo. Ma per chiarirci le idee dobbiamo fare una prima chiara distinzione tra paura e fobia.


Quando la paura diventa eccessiva e ci limita nell’esplorare e conoscere noi stessi e il mondo parliamo di fobia. Agorafobia, fobia delle malattie, fobia sociale, dismorfofobia, fobia del cibo: sono solo alcune delle fobie che colpiscono milioni di persone.

Da qui sorge la domanda: come nasce una fobia?


Uno degli studi più famosi sui meccanismi della paura fu condotto dallo psicologo statunitense John Watson: parliamo del famoso caso del piccolo Albert.

Siamo alla fine del 1919, quando Watson incontra Albert, bambino sano di 8 mesi, curioso di esplorare la realtà che lo circonda e senza particolari paure. Per prima cosa Watson cercò di capire se un forte suono potesse indurre paura nel bimbo, così decise di mettere Albert in una stanza e chiedere a un’altra persona di prendere a martellate una lastra d’acciaio per tre volte. La prima volta Albert sobbalzò alzando le mani, la seconda si mise a tremare e la terza scoppiò a piangere. Il bambino aveva avuto paura.


In seguito, dai 9 fino agli 11 mesi Albert venne messo in contatto con diversi oggetti, animali e situazioni. Non mostrò alcun segno di paura. Watson però era convinto di poter indurre in lui una vera e propria fobia.


Iniziò così la seconda fase del suo esperimento. L’innocua cavia da laboratorio, con cui avevano fatto giocare Albert nei mesi precedenti e per cui lui non aveva dimostrato alcun segno di timore, gli venne portata vicino ma, stavolta, i due ricercatori dovevano colpire una lastra d’acciaio per provocare un fortissimo rumore. In questo modo, quando Albert cercava di avvicinarsi alla cavia, immancabilmente sentiva quel suono terrificante: la prima volta il bambino cadde a terra senza piangere, ma la seconda si mise subito a piangere dallo spavento. La settimana successiva, quando gli venne ripresentato davanti l'animale, avvicinò piano piano le manine e le ritrasse prima ancora di entrarne in contatto. Poco dopo gli fecero rivedere la cavia ma stavolta Albert scoppiò in lacrime, cercò di scappare o di scacciare l’animale coi piedi. Albert aveva imparato ad avere paura della cavia.


Watson proseguì il suo studio cercando di capire se la paura si sarebbe potuta estendere anche a cose simili alla cavia. La settimana dopo portò Albert nella solita stanza dove vi erano un tavolo e alcuni blocchi con cui il bimbo iniziò tranquillamente a giocare. Poco dopo i ricercatori portarono la cavia e Albert reagì allontanandosi immediatamente, poi fecero entrare un coniglio e anche quello provocò il suo pianto. In pochi giorni la paura della cavia si estese anche alle coperte, alle pellicce a persino alla maschera di Babbo Natale con la barba. Albert sviluppò una fobia verso le “cose pelose”.


Successivamente provarono a ripresentare gli stessi animali ad Albert in un ambiente differente dalla sala dove studiavano i suoi comportamenti. Venne messo, invece della solita piccola stanza scura, in una ampia e luminosa, ma le sue reazioni furono le stesse. Watson fece passare un mese per verificare quanto il condizionamento si mantenesse vivo nel bambino, ma Albert reagì allo stesso modo anche di fronte alla pelliccia, alla cavia e alla maschera di Babbo Natale.


Questo fu un esperimento chiave per dimostrare l’importanza dell’esperienza e del condizionamento nello sviluppo delle nostre fobie; alcune possono per esempio nascere dall’associazione tra un oggetto e un’esperienza negativa intensa.

I meccanismi fobici sono relativamente indipendenti dalla valutazione razionale sulla reale pericolosità dello stimolo che temiamo. La maggior parte delle persone che ha una fobia sa benissimo che la sua paura è esagerata ma non riesce ad avere un controllo volontario su di essa.


Come abbiamo potuto comprendere le fobie sono considerate patologie per l’effetto che hanno sulle vite delle persone, basti pensare ad alcuni esempi come l’ablutofobia (la paura di lavarsi o di fare il bagno), l’agorafobia (la paura degli spazi aperti o dai quali potrebbe essere difficoltoso allontanarsi), la germofobia (la paura di venire a contatto con i germi) ecc.

Vanno quindi affrontate con serietà perché possono limitare l'esistenza e la qualità della vita di qualcuno.


Per potersi curare dal disturbo fobico va prima effettuata una diagnosi, di solito si consiglia un percorso di psicoterapia cognitivo comportamentale di breve durata (spesso entro i 3-4 mesi).

Dopo una prima fase di valutazione del caso, la cura passa dall’utilizzo di una serie di tecniche di esposizione graduata agli stimoli temuti.


Il paziente viene messo progressivamente a contatto non con l'oggetto o la situazione su cui si basa la fobia, ma con cose che li richiamano; per esempio far vedere a un agofobico la sola immagine di una siringa nuova o una scatola di mangime a chi soffre di Ailurofobia, la paura dei gatti. Il contatto con questi stimoli viene prolungato fin quando il soggetto non si abitua ad essi senza che si scatenino in lui attacchi di ansia. Conclusa questa prima fase si può procedere col sottoporre il paziente a un secondo stimolo leggermente più ansiogeno; così facendo nell’arco di qualche settimana, durante le sedute, si raggiungono esposizioni graduali sempre più forti senza però che nel paziente si scateni ansia eccessiva ma, anzi, si abitui a ciò.


In alcuni casi, al soggetto può essere insegnata una serie di tecniche di rilassamento da poter utilizzare poco prima dell’esposizione agli stimoli ansiogeni.

Con l’aiuto di un terapeuta esperto in psicoterapia cognitivo comportamentale, tale procedura garantisce una percentuale di successo del 90-95%.


Nei casi di fobie particolarmente invalidanti per la vita dell’individuo (es. fobia sociale, paura di volare, paura di guidare ecc.) o quando sono associate a patologie più complesse (per esempio nel disturbo ossessivo compulsivo), è diffuso l’utilizzo di farmaci ansiolitici e psicofarmaci, che non sono da recriminare o da giudicare perché in tali circostanze il trattamento farmacologico è molto spesso indispensabile se l’obiettivo della terapia è la restituito ad integrum, cioè il ritorno alla normalità.


Le fobie, come abbiamo detto, sono diverse, ma una è la peggiore di tutte: la paura di curarsi, di migliorarsi e lavorare su se stessi per reimpadronirsi della propria vita. Purtroppo non ci sono terapie da seguire né sedute da fare, ma bisogna solo avere un po' di coraggio! Si deve trovare la forza d'animo dentro di noi e ricordarsi che non si è da soli. Tutti, dopo tutto, hanno paura.




 

Autore: Lucrezia Abate



 
 
 

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