Resilienza significa comunità
- Accorciamo le distanze
- 23 ago 2022
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 24 ago 2022

Il seguente testo, proponendo un iniziale ragionamento sui concetti di complessità e incertezza, cerca di sottolineare l’urgenza di riconoscere l’interdipendenza e la vulnerabilità quali caratteristiche fondamentali del nostro sistema socio ambientale attraverso la rilettura di alcune voci del pensiero femminista.
Come recuperare il profondo senso del concetto di resilienza - termine tanto abusato da diventarne quasi insofferenti - nel suo carattere originario, strettamente connesso al senso di comunità? Considerando tali concetti, come possiamo intenderli nel sistema socio ambientale contemporaneo? In un tempo pervaso da squilibri e ingiustizie, cosa possiamo fare per rintracciare nuovi equilibri attraverso una rinnovata resilienza?
Analizzandola, la complessità del nostro tempo è causata principalmente dalle interrelazioni profonde tra le crisi che lo connotano: la crisi ecologica, generata dallo sfruttamento cieco delle risorse naturali e determinante nello sviluppo di crisi ambientale e climatica in corso; la crisi socio-economica odierna, inasprita dallo scoppio della pandemia, che ha indebolito ulteriormente le popolazioni e i territori più fragili; la crisi delle democrazie, rappresentata da una persistente sfiducia nelle istituzioni che continuano a seguire logiche ancorate a un sistema che in realtà è la causa di tutte le crisi sopra elencate.
La lista sembra poter continuare, in una catena infinita di problemi complessi per far fronte a tutto ciò bisogna prima di tutto capire e tenere presente l’intersezione e sovrapposizione tra ingiustizia ambientale e sociale che determinano la nostra contemporaneità.
Avendo chiara suddetta complessità, è necessario tener conto anche di una discrepanza intrinseca dettata dall’incertezza il nostro sistema è caratterizzato infatti dal caso, che non è catturabile attraverso dati e studi. Se questa incertezza venisse utilizzata in maniera proattiva, il sistema risulterebbe più forte: un sistema chiuso e incapace di accogliere il caso è molto più fragile rispetto a un sistema aperto e capace di accettare l’imprevedibile, pronto a ricalibrarsi e correggersi. Sottolineando la necessità di un agire consapevole, solo accettando il caos e
facendolo proprio si può progredire, imparando dagli errori e adottando soluzioni innovative e funzionali al nuovo scenario individuato.
La capacità di adattamento è propria del nostro sistema, che non è fisso ma dinamico, introducendo il concetto di resilienza. Cogliendone il suo significato più profondo e rivoluzionario, secondo il modello dell’adaptive cycle il nostro sistema socio-ambientale è caratterizzato da momenti di crescita, di conservazione, di crisi e, infine, di innovazione.
Queste fasi non sono per forza consequenziali, alle volte si sovrappongono, si mescolano, soprattutto nei momenti di instabilità come quelli che stiamo sperimentando: co-esistono di fatto forze conservatrici che tendono alla chiusura, e allo stesso tempo ci sono spinte rivoluzionarie e innovative, aperte, che colgono la crisi come opportunità.
Consapevoli di questa complessità e dell’incertezza quali caratteri della nostra
contemporaneità, e avendo rivisto il concetto profondo di resilienza - legato a quello di comunità in quanto essa dipende soprattutto da “come i soggetti pensano il cambiamento” rimane da capire in che modo possiamo intervenire al fine di innestare un processo di rinnovamento.
La filosofa statunitense Donna Haraway arriva al nocciolo della questione, dichiarando: “Voglio restare a contatto con il problema, e l’unico modo in cui so farlo è attraverso la gioia generativa, il terrore e il pensiero collettivo”.
La studiosa ha sintetizzato così lo Chthulucene, un tempo-spazio alternativo all’Antropocene e al Capitalocene. Secondo questa teoria, attraverso la responso-abilità - ovvero l’attitudine collaborativa tra esseri viventi e non che ci
rende capaci reciprocamente - e il pensiero situato, nello Chthulucene con-diveniamo insieme agli altri soggetti che mondeggiano sulla Terra, creando alleanze multi-specie “per imparare a vivere e morire bene, l’uno con l’altro, in un presente così denso”.
Risulta allora necessario, ora più che mai, accogliere l’approccio ecologista e capire profondamente la nostra interdipendenza sistemica: solo attraverso il con-fare, atto terreno e responso-abile, potremo generare un ambiente di vita sostenibile per tutti.
Questa consapevolezza ci porta a dover riconoscere, prima di tutto, la nostra vulnerabilità come esseri finiti e imperfetti. Una delle contraddizioni del nostro tempo è infatti la convinzione di poter essere indipendenti e autonomi, causa principale dello sgretolamento di relazioni che costituiscono il nostro spazio vitale. Inoltre, il sistema socio economico capitalista, in nome di una libertà fittizia, esalta l’individualismo, mettendo al bando tutte quelle pratiche e saperi situati che ci rendevano, al contrario, effettivamente liberi e autonomi: rendendoci più schiavi di prima, abbiamo rotto la fitta rete di trame che ci connetteva con i nostri habitat.
Questa deterritorializzazione ha causato quindi una degenerazione del sistema socio–ambientale, determinando un'indifferenza generale che è la
causa principale di incuria.
A fronte di tale situazione, quindi, dobbiamo riappropriarci in coscienza della nostra interdipendenza e vulnerabilità: in questo senso il prendersi cura10 diventa il concetto radicale per poter superare insieme le crisi che stiamo attraversando.
La Cura è infatti la più potente pratica per affrontare seriamente il collasso che stiamo vivendo: in un mondo in cui l’incuria regna sovrana, solo un’inversione di questa tendenza potrebbe salvarci.
Nonostante l’essenzialità delle pratiche di cura, estremamente connesse alla sfera della riproduzione socio-ambientale, esse sono state svalutate rispetto alle attività di produzione; questo paradosso è stato reso evidente durante la fase più acuta della pandemia in quanto le attività di cura (istruzione, sanità ecc) non potevano fermarsi, essendo sostanziali e necessarie per la riproduzione sociale, al contrario del mondo della produzione, quasi del tutto bloccato.
È evidente, dunque, quanto sia necessario ribaltare la subordinazione della pratica della cura per costruire una rinnovata cultura conviviale.
Questa proposta radicale, partendo dalla sfera intima del singolo individuo, giunge a essere principio universale per fondare un nuovo sistema sostenibile e giusto, basato sulla solidarietà e il principio di uguaglianza.
Queste pensiero-azioni sono cariche di consapevolezza: attivare una coscienza critica significa prima di tutto essere resistenti rispetto a un pensiero dominante, ricercando“ modi oppositivi e liberatori di costruire il sé e l’identità”.
Per bell hooks, femminista statunitense, bisogna creare vere e proprie comunità di
resistenza, coincidenti non solo con un atto intellettuale sovversivo e liberatorio, contrario a ogni tipo di oppressione, ma anche con un atto fondativo: l’attività critica del resistere genera uno spazio co-creato, annoverato con il margine. In tale dimensione diviene possibile condividere saperi e pratiche che “potenziano le nostre capacità di sopravvivenza” la marginalità diventa spazio “di creatività e potere, inclusivo, in cui ritroviamo noi stessi e agiamo con solidarietà, per cancellare la categoria colonizzato/colonizzatore”.
Analizzando la definizione sopracitata, prima di tutto risulta essere fondamentale il concetto di inclusività: rispetto a uno spazio esclusivo e chiuso, ossessionato dalla ricerca di sicurezza che, nella sua etimologia più radicale, altro non è che mancanza di cura, quello della resistenza si dimostra aperto, disponibile al confronto, dinamico e mai finito.
Non di meno importanza risulta essere il concetto di solidarietà: lo spazio co-creato non è certo sicuro, “è difficile, ma necessario”, per questo è essenziale farsi comunità. Grazie alla cura e al rispetto reciproco, la nostra vulnerabilità non è da intendere come limite, ma si apre alla possibilità e all’innovazione.
Tale spazio del possibile è uno spazio-in-comune generato, dunque, da una comunità pensante che lo fa esistere in quanto lo usa e non lo abusa attraverso la pratica della cura: esso, quindi, deve necessariamente uscire dalle logiche del mercato, in quanto non accetta nessun tipo di consumo, divenendo “più che pubblico e più che privato” , coincidendo con il bene comune.
Risulta centrale, in questo momento storico, sottolineare l’importanza della comunità in quanto solo attraverso di essa che si può formare una massa critica e oppositiva che determina e difende l’esistenza del bene comune.
Contro le logiche estrattive e distruttive dell’economia neoliberista, dobbiamo richiamare la nostra Costituzione come manifesto in difesa del bene comune: “Azione popolare è diritto e dovere di resistenza collettiva al degrado, alla razzia del paesaggio, all’esilio della cultura e del lavoro, alla spoliazione dei diritti. [...] Vuol dire riconquistare, in prima persona, un pieno diritto di cittadinanza, in nome della sovranità popolare, della moralità e della legalità costituzionale.”
Solo riconoscendo la nostra interdipendenza e la nostra vulnerabilità, riusciremo a intenderci comunità e proteggere quello che con-dividiamo. Per essere resilienti e far fronte alla complessità del presente, è necessario diventare capaci di creare nuove alleanze, tra umani e oltre-che-umani, in un apprendimento continuo tra vivente e spazio vivo, rigenerando quella relazione vitale che è il bene comune proprio di una comunità viva e aperta, inclusiva e creativa.
Autore: Isabella Calvi
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