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Sciogliere l’iceberg con una fiamma


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Orlando, un festival queer per la città di Bergamo


“Sogniamo una società coraggiosa e disponibile ad esplorare la complessità. Una società che cresca nuove generazioni non violente, libere di esprimersi, sensibili alle pari opportunità e ai diritti per le minoranze.” Questo è il sogno di Orlando, un progetto culturale che si svolge da 8 anni sul territorio di Bergamo e che indaga immaginari, amori e identità possibili. Abbiamo incontrato per Alia Mauro Danesi, il suo direttore artistico.


Chi è Orlando e quanti anni ha?


Orlando ha 8 anni, ma non è altrettanto facile dire chi è: di sicuro è un progetto culturale che prende il nome dall’omonimo romanzo di Virginia Woolf. E’ nato sotto forma di rassegna cinematografica che voleva proporre degli immaginari più plurali rispetto a quelli presenti nel contesto dove abitiamo, ovvero la zona di Bergamo. Nel tempo è cresciuto diventando un festival culturale di cinema, teatro, danza, laboratori e incontri. Comprende anche una parte ‘sommersa’ di attività formative che portiamo avanti durante l’anno sul territorio bergamasco e nazionale, dedicata all’educazione alle differenze. Da dove è nata l’idea e come il progetto è cresciuto negli anni?


Orlando è nato da un desiderio e da una necessità, all’inizio solamente locale. Bergamo nel 2014 viveva ancora di una cultura tradizionalmente conservatrice, ricca di pregi ma anche di difetti, per alcuni tratti bigotta. Ci siamo resi conto che mancavano una parte di rappresentazioni, soprattutto sugli amori possibili e sulle identità possibili. Avevamo bisogno di avere un po’ più di respiro.

Il desiderio iniziale era quello di creare un piccolo evento culturale, una rassegna di una decina di film che parlassero di identità plurali. Riconoscevamo già allora la responsabilità della cultura nel creare immaginari e quindi di manifestare possibilità ancora non realizzate. In particolare, frequentavamo i festival queer italiani e internazionali, come il Gay and Lesbian Film Festival di Torino e il GenderBender di Bologna e volevamo portare un po’ di quelle realtà a anche a Bergamo.

Orlando è nato così in punta di piedi, ma con due strategie che poi ne hanno permesso la crescita: la prima è stata il farlo nascere come un progetto di rete, non solo con la comunità LGBT ma con enti culturali e realtà che con questi temi non avevano niente a che fare, come la società cinematografica LAB80 film. Questa scelta ci avrebbe permesso di far comprendere come gli argomenti e le sfide che affronta Orlando riguardano tutti e tutte. La seconda strategia è stata quella di non avanzare provocazioni, ma adottare un approccio graduale e morbido, nella consapevolezza di intervenire in un contesto complesso. Per usare una metafora, è come esserci trovati di fronte a un iceberg: abbiamo deciso di provare a scioglierlo, con calma ma con costanza, con una fiamma. Provare a romperlo con una mazzetta, preferendo cioè un approccio più polemico e diretto, sarebbe stato controproducente.


Orlando è un festival queer?


Per noi Orlando è un progetto fortemente queer, nel senso ampio del termine: un progetto che vuole allentare le gabbie dei canoni e delle regole imposte culturalmente su tanti livelli: anche sui canoni di bellezza, sull’età, sui ruoli di genere. Abbiamo preferito il sottotitolo di “identità, relazioni, possibilità” consapevoli che nel territorio nessuno conosceva il significato della parola “queer”. Non volevamo nemmeno usare la dicitura “festival LGBT” perché non siamo solo quello.

Che difficoltà avete affrontato nel portare una proposta di questo tipo nella città di Bergamo?

Abbiamo affrontato tantissime difficoltà, all’inizio. La maggior parte degli enti e delle fondazioni sul territorio hanno una radice di cultura cattolica e diffidano da un tema che, sostanzialmente, non conoscono. C’è ancora molto tabù sui temi della sessualità, dell’erotismo, tanto più in quelle quelle relazioni ritenute non canoniche. Pian piano però abbiamo “scaldato l’iceberg”: ci siamo presentati, abbiamo spiegato chi eravamo e mostrato quello che facevamo, abbiamo sottolineato che non cercavamo una rottura, ma che la nostra intenzione era di raccontare delle storie per ampliare i confini di quello che è immaginabile e realizzabile. Quello che poi è successo, e che non ci aspettavamo, è che il tema è esploso nel 2015 con tutta la questione No Gender, un anno dopo la nascita di Orlando. Il No Gender era un movimento che bloccava le attività sull’affettività nelle scuole perché considerate ‘omosessualizzanti’ o ‘erotizzanti’. Eravamo già convinti di voler affrontare un tema complesso e necessario, da quel momento in poi lo è diventato ancora di più. Le indagini annuali di ILGA Europe sulla tutela dei diritti LGBT testimoniamo come negli ultimi anni anche la posizione dell’Italia nella graduatoria sia scesa, c’è stato un arretramento. Ci siamo quindi trovati ad avere tra le mani un progetto politico e non solo culturale. Ciò ha fatto sì che aumentassimo gli investimenti di tempo, implementassimo le reti nazionali e internazionali e alzassimo l’asticella del nostro progetto. La programmazione è sempre molto ricca di stimoli che toccano lo spettro ampio dei temi dei corpi, delle identità e possibilità. Nell’ultima edizione, ad esempio, Silvia Gribaudi con Graces affronta con ironia sferzante l’importanza di un’idea non convenzionale di bellezza; e con Overtour avete lavorato, tramite dei laboratori aperti alla cittadinanza, sulla vitalità e visibilità del corpo anziano nella società. Puoi dirci qualcosa di più su questi progetti e sul perché Orlando sceglie di avere un approccio intersezionale a questi temi? Quando nella legge Zan si è deciso di aggiungere anche l’abilismo (NdR la discriminazione delle persone diversamente abili), oltre al sessismo e all’omofobia, la performer Chiara Bersani scrisse “Le lotte o sono intersezionali, o non ci sono”. Noi di Orlando siamo assolutamente d’accordo con questa affermazione. Questo arretramento sugli immaginari possibili, sui percorsi di creazione di sé, di decisione di chi siamo, di libertà, può essere frenato solamente con la costruzione di alleanze e dimostrando la trasversalità di questa sfida, perché i principi di discriminazione sono gli stessi. Hanno caratteristiche differenti, ma sono gli stessi. Tra l’altro sono anche sovrapposti, esattamente come le nostre identità (ad esempio posso essere omosessuale e diversamente abile contemporaneamente). Quindi è fondamentale dimostrare l’intersezionalità e la sovrapposizione di questi discorsi, innanzitutto per mostrare che questa questione riguarda tutti e tutte: pian pian in Orlando abbiamo aggiunto e ampliato i livelli, le sezioni di discorso di cui volevamo occuparci. Overtour, per esempio, è un progetto di comunità e territorio con donne over 60. In linea di principio non è un progetto che ha a che fare con un festival LGBT , ma per noi è assolutamente a tema. Durante Overtour, queste donne sperimentano la danza e la libertà che ne deriva. Riescono anche a parlare di identità plurali con una sorprendente emancipazione dai tabù, sono il pubblico più fedele del festival - in cui si parla anche di omosessualità - e partecipano a tutti gli appuntamenti. Una di loro ha fatto anche parte di un laboratorio di Drag Queen del Toilet Club. La loro presenza mostra come tutto è interconnesso e come sia tutto parte di una stessa sfida.


Altrove hai affermato che Orlando - e l’arte, aggiungo - permette di “Sognare immaginari plurali, ampliare gli orizzonti di quello che è pensabile” . Cosa c’è di politico in questo? Ci rifacciamo a un concetto molto trattato e utilizzato dalla sociologia, quello di “campo di pensabilità”. Quando cresciamo, ci immaginiamo e costruiamo come identità all’interno dei modelli che ci hanno raccontato: ci serviamo cioè delle informazioni presenti dentro il perimetro di ‘cose pensabili come possibili’ che ci hanno fatto assorbire la famiglia, la cultura e la società. Perciò, quanto più vasto sarà il “campo di pensabilità” di una persona, quanto più essa si sentirà libera di andare a disegnarsi e costruirsi come individuo. Quando ho fatto coming out rispetto alla mia omosessualità, per esempio, mi sono accorto che su questo tema la mia famiglia aveva un “campo di pensabilità” ristrettissimo: i miei famigliari avevano pochissime storie possibili a disposizione per comprenderlo, mi immaginavano attraverso il filtro dell’unico modello che avevano in testa e che era una sorta di parodia televisiva dell’omosessualità. I miei genitori non avevano storie di riferimento attraverso cui raccontare l’esperienza che stavano vivendo in quanto genitori di una persona omosessuale, non avevano parole per nominare ciò che stava succedendo, quindi in un certo senso quello che stava accadendo non esisteva davvero. Nel passato, il “campo di pensabilità” delineava destini ristretti, c’erano dei binari molto limitati da poter percorrere: pian piano, attraverso le lotte femministe per quello che riguarda i ruoli di genere, questo campo di cose possibili si è allargato. Ma c’è ancora molto da fare. Io credo che questo principio del “campo di pensabilità” abbia un valore politico proprio perché se riconosciamo che esso è circoscritto dalla cultura, da quello che propone la società, abbiamo una responsabilità tutti e tutte nell’ampliarlo. In particolare la cultura, che è capace di creare immaginari nuovi. Quando nelle serie televisive hanno cominciato a sdoganare racconti plurali, hanno reso un grande servizio a tutti noi. Questa è la responsabilità che abbiamo, di ampliare il perimetro di ciò che è pensabile, per facilitare la vita nostra e delle prossime generazioni.

Abbiamo sentito svariate volte chiamare in causa bambini e bambine e una supposta difesa della loro “innocenza” per sostenere posizioni omofobe o transfobiche (“Non sono omofobo, ma una coppia gay non si deve baciare per strada, davanti ai bambini”). Orlando prevede anche diverse attività di formazione dirette a bambini e ragazzi, di cosa si tratta e perché vi occupate anche di formazione nelle scuole? Che riscontri avete avuto da parte di bambini e ragazzi rispetto a questi temi? Dal primo anno abbiamo inserito nella programmazione di Orlando dei progetti formativi, sotto forma di matinée per le scuole superiori. Ci siamo accorti subito di quanto fosse fondamentale lavorare su quel “campo di pensabilità” attivando percorsi di formazione specifica: non solo presentando un festival sfavillante della durata di dieci giorni all’anno, ma coltivando il terreno con pazienza, gradualità e costanza, come si fa con un orto. Perché è - anche - all’interno delle occasioni di formazione che cambi davvero le cose. I progetti formativi si sono sviluppati negli anni, e con crescente soddisfazione. Con l’infanzia, in particolare, è possibile osservare in maniera netta l’ampliamento degli orizzonti del possibile. Io credo che a bambini e bambine si possa davvero raccontare un mondo plurale, anche a partire dal nominare le professioni con il nome maschile e femminile. Si vede chiaramente come poi loro cominciano a sognare, a raccontare e pensarsi in un modo diverso: nel modo che vogliono, non nel modo che gli diciamo noi. Spesso quello che si sostiene nell’attacco No Gender è: “voi gli insegnate a essere…”. Noi non educhiamo a essere in un certo modo, ma disegniamo un mondo che non è ridotto. Perché la vita lo sappiamo che non è ridotta, ma che si porta addosso tutte le pluralità: perché allora dovrei raccontartene solo una parte? In generale, quello che facciamo durante gli incontri nelle scuole è aprire domande, riflessioni, senza imporre punti di vista specifici.

Negli anni abbiamo scoperto che esiste una rete nazionale autogestita che si chiama Educare alle differenze, che organizza proposte laboratoriali rivolte a diverse fasce d’età. Orlando è entrato a far parte di questo ente e ora ne è una delle realtà promotrici. C’è moltissimo bisogno di lavorare su questo, che è il vero terreno di battaglia, visto che ancora oggi alcune persone considerano i bambini e le bambine come imbuti acritici che riempi. Nella nostra esperienza abbiamo raccolto prove e prove su quanto i bambini e le bambine siano tutto fuorché imbuti acritici: certi elementi non risuonano in loro e li tralasciano, mentre altri li accendono. Allo stesso modo gli adolescenti.

Quando ci siamo incontrati, mi hai raccontato di come i primi anni di vita di Orlando hanno richiesto un grande investimento da parte tua che ne sei l’ideatore - con Martina Fiorellino - e direttore artistico. Ci puoi raccontare un pò meglio di questa fase del processo di costruzione del progetto? Cosa consiglieresti a chi avesse in mente un progetto pioniere da realizzare sul suo territorio?

Orlando, per il contesto in cui si è mosso, è partito come un progetto underground: non potevamo pensare di proporre il progetto alle fondazioni della città e ricevere un finanziamento. Proprio perché per loro era un progetto spaventevole, e lo è tuttora. Quindi la nostra scelta è stata di investire la nostra passione e il nostro tempo di lavoro per portare avanti una progettualità che sentivamo necessaria. Questo investimento è stato costante, ma stiamo cercando di reperire fondi per pagare le persone e far sì che il progetto - pur rimanendo no profit - abbia gambe per camminare da solo. Questa è la difficile crescita che bisogna fare, per rendere sempre più efficace il suo impatto sulla società e perché possa non basarsi sul volontariato: in questo caso infatti sarebbe destinato ad esaurirsi.

Il consiglio che posso dare è armarsi di pazienza: se si va a lavorare su temi di margine, cercando di allargarne le maglie, è ovvio che non si parte come progetto mainstream, capace di attirare immediatamente fiumi di sostegni e di denaro. Ma proprio per questo è importante lavorare sui margini. Quindi suggerirei tenacia e lavoro di rete. Soprattutto, tenacia: in questi sette anni di esperienza con Orlando, la tenacia ha portato ad avere delle soddisfazioni e dei riconoscimenti economici, che poi abbiamo reinvestito nel progetto. Le diffidenze scendono pian piano. Come dicevamo, come un iceberg che va sciolto con una fiammella. Ma una volta sciolto, non si torna indietro.

Se Orlando potesse esprimere un desiderio, quale sarebbe? Di non dover esistere, di non essere più necessarii. Ovviamente non staremmo fermi, ci occuperemmo di altri progetti, ma davvero il desiderio più bello sarebbe quello di vivere in una società dove non c’è bisogno di questo tipo di iniziative perché è costruita su immaginari plurali. E nelle poche volte che succede si sente un respiro, uno spazio interno…che è bellissimo.


E’ di pochi giorni dopo la nostra intervista con Mauro Danesi la notizia del riconoscimento all’associazione Immaginare Orlando della Benemerenza Civica da parte del Comune di Bergamo, "per l'impegno nella creazione di attività culturali e formative di utilità sociale sul territorio bergamasco e per il lavoro di decostruzione dei presupposti culturali che possono portare a discriminazioni e violenze su base di genere e orientamento sessuale”.


Il sogno di Orlando si sta realizzando, l’iceberg si sta sciogliendo.




Autore: Nina Rama

Laureata in Filosofia, si forma nel campo delle arti performative. Dal 2012 è curatrice di progetti artistici, culturali e didattici. Scrive poesie. Recentemente, le sue opere sono state selezionate al concorso internazionale Cultura de Urgencias del Circulo de Bellas Artes di Madrid e al concorso Poetare de La Scuola di Editoria (FI). Vive a Cassano d'Adda (MI).



 
 
 

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