Soundwalkers
- Accorciamo le distanze

- 23 giu 2021
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 30 giu 2021

Attraverso il suono, verso il silenzio
Mattia e Stella sanno muoversi bene sui sentieri lungo il fiume, riconoscono gli uccelli dal loro canto. Sul ponte è in funzione un martello pneumatico per dei lavori di manutenzione: il suo rumore persistente si spande in tutte le direzioni. Ci allontaniamo e ci addentriamo nel folto, accompagnati dallo sciabordìo delle acque, verso un luogo di ‘vero silenzio’.
Mattia - Soundwalkers è un progetto di esplorazione del paesaggio sonoro, nato come spazio di libertà dedicato principalmente all’ascolto; è anche un contenitore in grado di far convergere le ricerche e le sperimentazioni che stiamo portando avanti negli ultimi tempi attraverso lo studio e laboratori aperti al pubblico. Al momento anche la pagina instagram che ospita il progetto conserva un archivio di suoni provenienti dal soundscape (paesaggio sonoro) naturale, antropizzato oppure misto. Ogni soundscape è accompagnato da riflessioni e domande che possano incuriosire chi ascolta nei confronti del paesaggio sonoro e guidare nell’approcciarsi alla sua dimensione invisibile. I testi che ci hanno spinto in questa ricerca sono stati “Il Paesaggio sonoro” di Murray Schafer e le ricerche di Pauline Oliveros. A livello di esplorazione, ci piace alternare un livello di ascolto ambientale esterno e uno di ascolto interno propriocettivo.
Stella - C’è una profonda differenza tra il sentire - inteso come ‘farci attraversare’ dai rumori che abbiamo intorno - e il fermarsi ad ascoltarli. Questa superficialità del sentire, che è quello a cui siamo più abituati, fa sì che spesso non ci accorgiamo nemmeno di essere turbati da un suono - o che, viceversa, nell’ambiente in cui siamo c’è un suono che ci sta aiutando a stare meglio. Tutto questo succede perché la pratica dell’ascolto, generalmente, non è quotidiana. Certo, se c’è un martello pneumatico in funzione nella casa di fianco ce ne accorgiamo, altrimenti è difficile che accada. Durante un laboratorio di musicoterapia della scuola che frequentiamo io e Mattia, ricordo che l’insegnante, a un certo punto, ha spento il condizionatore: solo in quel momento ci siamo resi conto che non eravamo immersi nel silenzio, e che forse non riuscivamo a risolvere la consegna che ci era stata data perché eravamo sottilmente infastiditi da quel rumore di sottofondo. L’ascolto profondo consiste proprio nel cercare di avere consapevolezza dell’effetto che i suoni hanno su di noi e dell’effetto che noi abbiamo sui suoni.
Mattia - Si può iniziare un processo di approfondimento della dimensione acustica nelle nostre vite in ogni momento. Nei laboratori che abbiamo condotto siamo partiti da un’indagine spaziale sulla locazione del suono, sulle qualità sonore, sulle timbriche. Per esempio, mi metto in un punto d’ascolto e mi chiedo: qual è il suono più vicino? Quello più lontano? Qual è la tonica, ovvero il suono prevalente? In questo momento ci troviamo su dei massi giganti lungo il fiume e ascoltiamo lo scorrere di acque basse che gorgogliano al passaggio su dei sassi. Questa sarebbe la tonica di questo paesaggio sonoro. Altri elementi interessanti da notare sono quelli che Schafer definisce segnali, ovvero suoni che emergono dallo sfondo (come in un quadro si pone il rapporto tra sfondo e figura) e i soundmark, traducibile come “impronte sonore”. Questo è un aspetto che ci interessa moltissimo. Le impronte sonore sono definibili come i suoni tipici che caratterizzano un paesaggio: per una comunità marittima, per esempio, il suono del mare è un soundmark imprescindibile. In un laboratorio che abbiamo condotto lungo il Naviglio a Cernusco (Milano), i partecipanti avevano individuato nel vociare dei pescatori un suono tipico, un soundmark appunto, di quel paesaggio. Al ritorno da quella passeggiata sonora, un bambino aveva notato che i pescatori non c’erano più, ma era come se il suono fosse rimasto. La provocazione che allora avevamo portato avanti era stata: perché non pensare a delle targhe che identifichino le specificità sonore di un certo paesaggio? Nella nostra società legata all’immagine, mettere una targa a testimoniare la presenza di qualcosa di invisibile probabilmente solleverebbe domande legate ad aspetti più interiori della percezione.
Stella - Questo si collega al tema dell’anamnesi sonora-musicale che si affronta nella musicoterapia. Ricordo di quando dirigevo, diversi anni fa, un coro di signore anziane a Boltiere (Bergamo). In quell’occasione, uno dei primi esercizi che avevo portato avanti con loro era relativo alle memorie sonore. Una delle partecipanti ha raccontato di un episodio legato alla diga di Vaprio (Bergamo): erano stati segati alcuni tralicci della struttura e il vento, al suo passaggio in questi tubi, risuonava in un modo assolutamente particolare. Quel suono è rimasto intatto nel corso degli anni nella memoria di quella signora ed era in grado di riportarla a dei ricordi di infanzia legati alle passeggiate col proprio padre nei pressi della diga. I suoni entrano in noi e, come le madeleine proustiane, ci permettono di riprendere contatto con particolari momenti della nostra vita.
Non si tratta di fare impossibili gerarchie tra i sensi, ma di sicuro quando pensiamo alle immagini - in questo momento storico - è quasi immediato pensare al medium della fotografia: siamo spesso impegnati a scattare foto anziché impregnarci fino in fino di quello che stiamo guardando. Estrarre il registratore per raccogliere i rumori dell’acqua è sicuramente qualcosa di meno comune. Forse è per questo che l’ascolto ci permette di ancorarci al ricordo in maniera più profonda rispetto a quanto ci possa accadere con il canale visivo.
Mattia - E’ un fatto di educazione, nel senso etimologico del termine, di “portare fuori” qualcosa che è già in noi.
Stella - Il tema dell’educazione è per me un nervo piuttosto scoperto: lavoro alla scuola dell’infanzia e nei nidi. In questi ultimi porto avanti un processo legato ai suoni e al loro riconoscimento attraverso il metodo Gordon. Nella scuola dell’infanzia, invece, conduco progetti di educazione all’ascolto. Questi progetti a volte vengono completamente fraintesi e travisati a causa di un approccio “da performance”: si pensa che se studi i suoni o la musica, è scontato che tu ne debba produrre, che tu per forza debba imparare a suonare - e non ad ascoltare. A mio avviso, questa è una delle immense lacune del sistema scolastico italiano. Incontro molte difficoltà proprio rispetto alla comprensione di questo tipo di lavoro, come nelle occasioni in cui ci si attende la presentazione di un “saggio di fine anno”. Il “saggio di fine anno”, per come la vedo, è che magari il bambino sarà diventato più consapevole dei suoni che lo circondano. Uno dei tanti progetti che sto portando avanti è proprio un progetto di ecologia sonora alla scuola dell’infanzia.
Mattia - Che poi se ci pensi, “saggio” è una parola strana, ovvero: di che saggezza stiamo parlando? Quando si parla di musica, si pensa subito a note, teoria, melodia, armonia. Questi elementi però spesso respingono chi si approccia all’apprendimento di uno strumento, perché si pensa che per farlo si debbano possedere doti eccezionali di decodifica di sistemi. Partire dall’ascolto, dall’oggetto sonoro, conduce anche a una possibilità performativa differente. La musica concreta è stata un esempio di questo nel secolo scorso: si tratta una forma espressiva correlata alla musica contemporanea che nasce nel 1948 per definizione di Pierre Schaeffer e che pone al centro della ricerca l’oggetto sonoro nella sua “immediatezza” fisica (timbrica,durata, attacco e rilascio etc.) e mettendo in secondo piano gli aspetti “astratti” della composizione (armonia, notazione musicale).
Stella - Anche gli studi di Boris Porena sulla composizione informale lo dicono: il codice a pentagramma con le note è bypassabile. L’importante, se si vuole suonare in un gruppo, è possedere un codice comune che permetta la comunicazione.
Mattia - Anziché partire dalle nozioni tradizionali, si parte dall’analisi del suono in sé: quanto dura? Come entra ed esce dalla composizione? Cosa mi interessa di questo suono? E può essere un qualsiasi suono, non solo emesso da uno strumento musicale, ma anche un suono naturale o tecnologico o emesso dall’uomo. A questo proposito, il lavoro della sound artist Chiara Luzzana mi è di grande ispirazione, per la sua competenza nella manipolazione degli oggetti sonori e la capacità di creare narrazioni acustiche attraverso composizioni originali.
Stella - Nei fatti, poi, non c’è nessuna differenza tra le reazioni di un bambino e di un adulto se non si è abituati ad ascoltare.
Mattia - Ci possono essere adulti più disponibili ad accogliere l’esperienza in maniera giocosa, altri invece meno, ma non abbiamo mai avuto risposte oppositive.
Stella - Anzi, riceviamo spesso feedback che vanno nella direzione di una ricezione dell’esperienza come possibilità per centrarsi, rilassarsi, pensare… addirittura alcuni si sentono “espansi”, più grandi, in grado di ascoltare di più e muoversi meglio. Queste cose forse trascendono anche la potenza del canale uditivo e arrivano alla potenza dell’ascolto interno, dell’attenzione a se stessi (che non c’è mai). E’ anche interessante vedere dove si gioca questo confine tra lo stare bene perché si sta nei suoni o perché ci si sta concentrando solo su quello e si è nel qui e ora. Si va così a toccare il tema della meditazione. L’ascolto sonoro permette di ancorarsi a un dato sensoriale e questo approccio può essere utile per chi si avvicina alla meditazione, anziché sperimentare subito pratiche di silenzio completo. Mi piace citare una delle meditazioni sonore di Pauline Oliveros che dice “stai lì fermo e ascolta: aspetta un suono come il pescatore che osserva la lenza per vedere quando l’amo si muove all’arrivo del pesce”.
Mattia - Se pensiamo all’esperienza de L’ultimo concerto (in cui buona parte delle performance sono state silenziose) possiamo dire che ci ha messo in relazione con l’esperienza che ognuno di noi ha dei i silenzi, delle pause e delle riflessioni interne che derivano da questa.
Stella - E anche con il disagio che ti provoca il silenzio a volte, soprattutto se non sei abituato ad ascoltare i tuoi pensieri
Mattia - Tutti questi discorsi si inseriscono perfettamente nel dibattito contemporaneo, a riprova del fatto che chi si occupa di suono non vive ‘nell’iperuranio’. Collaboro con l’associazione Fedora, che si occupa di accessibilità del suono e di eventi culturali per persone non udenti e non vedenti. In quel contesto, questo genere di ricerca e di domande diventa cruciale e queste riflessioni sono anche in grado di portare l’azione performativa e la composizione a un livello differente, proprio perché ti poni a servizio di persone con capacità diverse.
Stella - Penso alle esperienze che realizza Serena Crocco, regista del gruppo teatrale “Laboratorio Silenzio”, che - con il progetto “Silenziose tracce” - conduce i partecipanti a fare delle camminate in compagnia di persone non udenti: la particolarità è che chi è normoudente deve indossare delle cuffie antirumore. Così ti ritrovi a fare questa passeggiata nel paesaggio sonoro non udendo, o udendo solamente i tuoi suoni interni, esattamente come gli altri. Una condizione che la maggior parte delle persone non ha mai sperimentato prima.
Mattia - Il tema del silenzio è essenziale anche per il processo di composizione. Per far capire il valore delle pause in musica ai ragazzi a cui insegno, faccio questo esempio: immaginatevi una stanza senza finestre. E’ claustrofobica. Se però in questo spazio metti delle finestre - e, fuor di metafora, delle pause nella composizione - tutto respira. Dal silenzio filtra la luce, l’aria. Per me questa immagine è immediata per comprendere il significato del silenzio in musica. Lo diceva già John Cage che i materiali della composizione sono suono e silenzio.
Stella - Pensa che in un’esperienza formativa che ho seguito online, l’insegnante Ferdinando Suvini ci ha fatto restare davanti a Zoom in silenzio circa 10 minuti… Succedevano tante cose.
Mattia - In quelle occasioni è possibile apprezzare anche diversi tipi di silenzio. Sappiamo tutti riconoscere la differenza tra un silenzio imbarazzato e uno denso di riflessione o emozione. I silenzi finali dei laboratori che conduciamo sono molto diversi da quelli iniziali. Questo emerge anche dalla ‘qualità sonora’ degli ambienti interiori: c’era chi magari arrivava a quella giornata con uno spazio interiore già abbastanza svuotato e chi invece arrivava molto carico - queste differenze circolavano e avevano effetti anche sul gruppo.
Stella - Tutte queste esperienze sono estremamente interessanti ma vanno condotte con estrema cura. Una delle domande che una delle mie insegnanti di musicoterapia mi ha posto, nell’ambito delle riflessioni sull’esperienza musicale e sonora come occasione di conoscenza di sé e integrazione di materiale emotivo della persona, è stata questa: una volta che hai facilitato questi processi, poi sei in grado di gestire quello che emerge nel partecipante? Questa è una domanda importantissima che pochissimi si pongono.
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Autore: Nina Rama


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