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Tra difesa e tutela




Il potenziale del riuso contro l’erosione e il consumo del suolo


Il territorio italiano è esposto a molti rischi naturali dovuti, principalmente, alle caratteristiche geologiche, morfologiche e idrografiche che lo connotano. Terremoti, frane e alluvioni continuano a essere un grave problema che affligge persone e luoghi, senza contare la presenza di alcuni dei vulcani attivi più pericolosi a livello europeo. Osservando l’ultimo report pubblicato da ISPRA –Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale– il livello di criticità più alto risulta appunto quello connesso ai dissesti idrogeologici: il 93,9% dei comuni italiani (ossia 7.423) è a rischio per frane (1,3 milioni di abitanti in pericolo), alluvioni (6,8 milioni di persone) e/o erosione costiera. Le regioni con i valori più elevati sono Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia, e Liguria.


Questo dato è in continuo aumento rispetto alle precedenti rilevazioni (2015/2018), non solo per l’aggravarsi delle condizioni dettate dal cambiamento climatico, che generano eventi meteorologici sempre più intensi, rafforzando la frequenza e l’intensità di frane ed esondazioni, ma anche per la persistente attività di impermeabilizzazione del suolo. L’azione antropica in termini di consumo di suolo, infatti, è direttamente connessa alla capacità di un territorio di assorbire e quindi mitigare gli effetti di un possibile fenomeno calamitoso. Anche in questo caso, la situazione italiana purtroppo non è ottimale, anzi, nonostante la consapevolezza sul tema, le superfici artificiali sono in crescita.


Si pensi che in generale dal 1950 al 2020 la superficie impermeabilizzata è salita dal 2.7% al 7.11% (rispetto alla media UE del 4,2%): suoli naturali e agricoli vengono persi in favore della costruzione di nuovi edifici, infrastrutture, complessi logistici, commerciali e produttivi. Le aree degradate includono, inoltre, anche i terreni abbandonati, altro grave problema che è rilevabile soprattutto nelle zone collinari e montane rurali: questi territori –conosciuti anche con il nome di aree interne– sono afflitti dallo spopolamento dall’inizio del secolo scorso. Le profonde trasformazioni dei sistemi socio-economici e culturali-politici del XX secolo, infatti, hanno determinato l’abbandono di questi luoghi, provocando in primis la perdita di presidi attivi sul territorio, ovvero di tutte le attività di cura, gestione e manutenzione che permettevano il mantenimento di suoli liberi o ricoperti da boschi, direttamente connessi alla capacità di resistenza nei confronti dei rischi naturali.


Nonostante gli allarmi della comunità scientifica l’impermeabilizzazione del suolo avanza, diminuendo esponenzialmente le risorse ecosistemiche in esse contenute, causando la perdita di biodiversità, ma soprattutto acutizzando la fragilità in termini di rischi. Il consumo del suolo, secondo i dati dell’ultimo report SNPA –Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente– rimane elevato nelle pianure del Nord (soprattutto Lombardia e Veneto), intorno alle aree metropolitane di Roma, Napoli, Bari, Bologna e lungo i tratti litoranei adriatici e siciliani.


Purtroppo la scarsa osservanza, sia nel passato che oggi, di una corretta pianificazione territoriale ha permesso lo sviluppo di aree urbane anche in zone potenzialmente a rischio, e questo fatto è estremamente connesso alla mancanza di una normativa nazionale omogenea sul tema della difesa e consumo di suolo, lasciando alle Regioni il compito di autodisciplinarsi e generando quindi gravi squilibri tra territori in termini di sviluppo sostenibile.


Prendendo come esempio Regione Lombardia, dopo essersi dotata di propri strumenti urbanistici nel 2005, dal 2014 si è munita di una normativa specifica riguardo il consumo di suolo; attraverso la LR 18/2019, inoltre, sono state introdotte valide disposizioni mirate a limitare la perdita di ulteriore terreno permeabile, promuovendo la rigenerazione di aree urbanizzate degradate e la riqualificazione del patrimonio costruito sottoutilizzato. È infatti importante sottolineare quanto la lotta al consumo di suolo sia estremamente connessa alle pratiche di riuso del patrimonio costruito in disuso: esso rappresenta di fatto un'alternativa resiliente e sostenibile, come sottolineato dalle recenti iniziative europee (in primis il New European Bauhaus), che puntano alla rigenerazione di territori e comunità attraverso l’attivazione e la cura delle risorse ecosistemiche esistenti, partendo dal patrimonio abbandonato. Tali processi, inoltre, permettono non solo di evitare nuove costruzioni ma, se effettuate con cognizione di causa, possono essere modelli innovativi di economia circolare e verde, proponendo l’utilizzo di nuove tecnologie ecologiche messe in relazione a tecniche di costruzione tradizionali. Esse stesse sono esempi di resilienza, come sottolineato dal recente report “Strengthening cultural heritage resilience for climate change” pubblicato come output del Work Plan for Culture 2019/22 di Unione Europea, che si concentra principalmente sulle potenzialità del patrimonio culturale nei confronti della transizione ecologica necessaria.


Suddetta visione può essere ovviamente estesa al patrimonio costruito ove ci fossero le condizioni tali da riutilizzarlo. In questo senso, appare lampante il recente report di openpolis: in Italia oltre 10 milioni di immobili risultano inutilizzati! Secondo i dati ISTAT (2019) la regione con la maggior incidenza di abitazioni non occupate è la Valle d’Aosta con il 56,73%, seguono Molise (46,66%), Calabria (44,54%) e Abruzzo (41,11%), ma anche regioni con indici relativamente bassi, come la Lombardia (23.70%), se osservate nel dettaglio provinciale, assumono connotazioni preoccupanti; proseguendo con l'esempio, Sondrio è la prima tra le province con oltre il 57% della case disabitate.


Osservando queste cifre, esse indicano come il riuso potrebbe influenzare positivamente sui processi in atto di erosione e perdita di suolo e diminuire di conseguenza la vulnerabilità dei territori e delle persone nei confronti dei rischi naturali. Non solo: conservare e tutelare il patrimonio diffuso significa mantenere attiva la nostra memoria collettiva nonché la nostra cultura, che si rigenera, evolvendosi e trasformandosi, diventando quindi risorsa disponibile anche per le future generazioni.


Coinvolgere le comunità in questi processi risulta un altro punto fondamentale, come metodo per accrescere la democrazia partecipativa oltre che diffondere conoscenza: in questo senso, risultano interessanti i primi risultati dei bandi PNRR sul patrimonio diffuso (Missione 1C3, investimento 2.1), che dimostrano un’alta partecipazione alla call in tutta Italia (qui i risultati di Regione Lombardia pubblicati da ANCI, la quale svolge il ruolo di facilitazione all’interno dei processi di coprogettazione promossi dal bando) a fronte delle risorse limitate destinate al settore culturale. Di fatto, nonostante la ricchezza presente su tutto il territorio nazionale in termini di patrimonio diffuso, solo il 2.4% dei fondi totali è stato destinato alla cultura (dati openpolis). Soltanto osservando le potenzialità del bando sui piccoli borghi (PNRR), le risorse disponibili hanno dato l’avvio a 229 progetti che risultano molto inferiori al numero dei paesi effettivi che potevano accedere all’avviso pubblico, circa il 4%: in Italia la maggior parte dei comuni, infatti, è di piccole dimensioni -ovvero sotto i 5000 abitanti- in totale 5529 (quasi il 70%)!


Comunque importanti precedenti sono stati fatti e sicuramente il livello di consapevolezza dei cittadini è in aumento. Serve sicuramente di più: normative esaustive a livello nazionale, per una tutela maggiore dei territori e comunità che li abitano, nessuno escluso!





 

Autore: Isabella Calvi




 
 
 

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