Uomo capitale
- Accorciamo le distanze
- 5 lug 2023
- Tempo di lettura: 5 min

“Goditi gli errori adesso, perché tra un anno non ti saranno più permessi”
Inizio a capire il fascino dell’intelligenza artificiale. Cosa vuoi di più? Riduci il margine d'errore, salvi qualche responsabilità, guadagni spazio in ufficio; tutte quelle scartoffie da perderci ore magicamente si vaporizzano in qualche byte, e il tutto in una manciata di secondi. Altro che stagisti e apprendisti: quelli ci mettono tempo, caracollano tra le scrivanie con quell’aria spaurita di chi si sente all’altezza solo di portare il caffè senza rovesciarlo. E in più – peccato capitale - hanno testa e bocca piena di domande.
Come si fa? È meglio così o così?
Riesci a farmi sapere entro un’ora?
Domani stacco alle 18, posso finire la mattina dopo?
Inizio a capire il fascino dell’intelligenza artificiale. O meglio, capisco il fascino del non dover dare spiegazioni, e di non venirsi a trovare nell’imbarazzante situazione di barattare le proprie conoscenze con il nulla di due occhi e un cervello che possono ripagarti solo con la propria volontà e il proprio tempo.
Qualcuno, dall’alto dei salotti intellettuali sparsi per il mondo, si dice preoccupato di ciò che le tecnologie stanno imparando a fare, parla di rischi d’estinzione e di scenari apocalittici; il tempo dell’uomo – queste le parole spremute di tali Cassandre moderne – sta per essere soppiantato dal tempo delle macchine.
Che poi, agli occhi di un cocchiere persino il treno a vapore appariva “una cosa viva” dalla “forza cieca di baleno” - Guccini sia lodato. E agli occhi di noi inquilini della Rete, l’allegra brigata delle tecnologie AI, ChatGPT in testa, stimola un misto di curiosità e timore, quasi riuscissimo ad annusare il cambiamento dietro l’angolo.
Come spesso accade, però, si guarda al sasso e non alla mano che l’ha lanciato: l’apocalisse non è tanto immaginarsi una fantascientifica guerra di sopravvivenza tra uomini e macchine, la creatura che si ribella al creatore. La fregatura è quando si trasforma l’uomo in macchina, quando si fanno passare per umani comportamenti o abitudini individuali e relazionali che chiaramente non lo sono.
Tempistiche, trattamenti, routine: tutto si può meccanizzare e automatizzare, fino a quando piccole parti di noi si convincono che sia l’unico modo di vivere. E sono convinzioni contagiose.
Dopotutto, anche con le persone è tutta una questione di schiacciare i pulsanti giusti. Di dare i giusti prompt, direbbero i proseliti di ChatGPT. Sul lavoro è più facile accorgersene che in altri contesti, ma se ci fermiamo a riflettere – ammetto sia un lusso per pochi, di questi tempi – vedremo che fin da piccolissimi siamo cresciuti secondo il mantra della prestazione, della produttività, dell’agonismo. A scuola si è prima un voto e poi persone, in università si è “i dentro” o “i fuori” corso, i laureadotati o i falliti, sui social si è il numero di followers o i like in coda a un post. In fondo, cresciamo a pane e numeri, con un’idea precisa di cosa significhi realizzazione personale: qualcosa che ha che fare con l’ottenere e il mantenere, non con il sentirsi e l’appartenere.
Tempo fa, mi è capitato di buttare un pensiero distratto sulla mia vita. Ero in metropolitana, di buon mattino, seduto comodo a osservare la quantità di teste ciondolanti di fronte a me. Pensavo – e sono sicuro che la musica in cuffia abbia la sua fetta di responsabilità – a quanto si sta bene quando si è in equilibrio. Sveglia alle 6:45, treno delle 7:15, dieci minuti di tram, 9 ore in ufficio, altri dieci minuti di tram, treno delle 19, macchina, cena, letto.
Ripeti. Ripeti. Ripeti. Equilibrio, no? Tutto rientra nei piani, e la giornata è divisa in microparticelle con uno scopo e una funziona precisa. Non è semplice abitudine: è convincersi che il tempo si misuri in momenti ben spesi, produttivi, senza uno spiraglio lasciato al caso. Qualche fermata più tardi mi sono chiesto quanti di questi momenti dipendessero da me. O meglio, quanti avessero a che fare con il vero me, quello dietro la tenuta da lavoro e da pendolare, quello – forse – ancora diffidente verso i numeri.
Non è stato un calcolo complicato, tutto sommato, ma un esercizio nella calviniana arte del levare: tolto il superfluo, l’estraneo, il forzato e l’automatico, mi rimanevano le letture in metro e il divano post cena. Ottimisticamente, dalle tre alle quattro ore al giorno in cui sentivo di appartenermi: non un bilancio da annali, lo riconosco. Anzi, se si contano anche la reperibilità e l’iperconnessione sotto il segno di smartphone e social, il margine si assottiglia ulteriormente.
L’impressione, dopo una brioche in piedi al bancone, è che mi sfuggisse qualcosa, qualcosa di profondo ma talmente bistrattato da apparire quasi futile. Siamo formati per occupare un posto, espletare un insieme di funzioni, risolvere una serie di problemi, e tanto meglio lo facciamo, tanto più diventiamo visibili. Assumiamo dei contorni e ci muoviamo come chi sa cosa vuole, quando in realtà sappiamo solo qual è il prossimo impegno sull’agenda. Ci identifichiamo nella lista delle cose che ci sono affidate, ci riconosciamo nei compiti che cerchiamo di portare a termine, e pian piano ci convinciamo che quel titolo sul CV non ha a che vedere con il fare, ma con l’essere.
Sono un manager, un avvocato, un’insegnante, una ricercatrice.
Sono un rider, o uno stagista.
Sono disoccupato.
Non sono niente.
Sì, la parabola decrescente non è messa lì a sproposito. Ho conosciuto molte nullità abbarbicate sui rami più alti della piramide sociale, e altrettanti diamanti nel fango dell’assenza di prospettive. In entrambi i casi, quella piccola casella che ci si trova a occupare – così importante, la più importante del mondo – decreta se si è realizzati o meno, se si è arrivati o se la strada ha avuto la meglio.
Sembra strano che tutto questo sbrodolare possa c’entrare con ChatGPT e compagnia cantante. Le rivoluzioni, ce lo insegnano a scuola, ci scoppiano in mano prima ancora che ce ne rendiamo conto; quello che non ci insegnano è fiutarne i segnali, smascherare i punti di rottura, farsi cercatori di discontinuità. Ci scandalizziamo per l’intelligenza artificiale – per molti, il nemico alle porte – ma siamo ciechi di fronte alla meccanizzazione dell’essere umano.
Da quanto si parla di forza lavoro? Un secolo? Due?
Da quando si considerano uomini e donne come ingranaggi interscambiabili di una catena ben oliata con il loro sudore?
I posti che occupiamo ci rendono rimpiazzabili, le persone che siamo ci rendono unici. Per chi vuol essere partigiano del presente, la forma più vincente di resistenza è dare valore alle singolarità e alle differenze. E sì, anche agli errori. Perché si può progettare una macchina senza macchia e senza paura, e la si può persino migliorare fino a tendere alla perfezione; quello che non si può fare, però, è insegnare a una macchina cosa si prova a essere migliori, quali subbugli interiori genera un atto di fiducia, che energia si sprigiona dalla forza di volontà.
Sono variabili che sfuggono all’equazione e che nessun codice potrà mai riassumere. Perché, per quanto avanzata una tecnologia possa essere, da essa verranno sempre e solo risposte, mai domande. E anche qualora acquisisse la capacità di chiedere anziché controbattere, lo farà sempre in risposta a una funzione dettata da una combinazione di comandi.
Domandare è essere liberi, e questo è il più grande privilegio di noi esseri umani. Persino nella nostra casella, alla scrivania o in magazzino, in strada o tra i filari di vite, il diritto e la possibilità di interrogarci e interrogare fanno di noi ben più di uno strumento che agisce dietro ricompensa: fanno di noi un potenziale, un grumo di futuro.
Il progresso tanto decantato, in fondo, è tutto qui, in un punto di domanda sull’agenda di uno stagista.
Autore: Alessandro Ghidini
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