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Vite missionarie


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A tu per tu con due missionari del PIME


Cosa vi viene in mente se dico “missione”? Un posto lontano, persone da convertire o il desiderio di cambiare il mondo? Questa domanda l’ho posta a due missionari “di professione”: Padre Fabrizio e Padre Pavan.


Fin da quando ero bambino ho assaporato l’esperienza missionaria, i miei genitori sono stati 5 anni in Mali e più volte mi sono ritrovato ad ascoltare le avventure, così le definivo, dei Padri bianchi (Missionari d’Africa) che hanno una comunità a Treviglio. Mi sono innamorato di quei racconti, di come trovare l’acqua in mezzo al nulla utilizzando dei semplici rami oppure degli atti eroici di Padre Giuseppe, durante il genocidio in Ruanda. Più crescevo più aumentava in me il desiderio di toccare con mano quello che per anni è rimasto solamente nel mio immaginario. Non sono qui per raccontarvi di me e dei miei “sogni missionari” ma per parlarvi del PIME, istituto con il quale attualmente sto facendo un percorso in preparazione ad una breve esperienza missionaria estiva.


Il PIME è il primo istituto missionario in Italia, fondato da Mons. Angelo Ramazzotti nel 1850 come, originariamente, Seminario Lombardo per le Missioni Estere, per poi cambiare il nome in Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME). È una società di vita apostolica, ossia una comunità di sacerdoti e laici che dedicano interamente la propria vita all’annuncio del Vangelo e alla “promozione umana” in mezzo a popoli e culture di Paesi diversi, privilegiando le situazioni di “periferia”, sia in senso geografico che esistenziale. Con il termine “promozione umana” si intende la soddisfazione di diversi bisogni delle comunità, che siano di carattere alimentare, assistenziale, formativo o di altra natura, e la tutela dei diritti umani al fine di ridare piena dignità alle persone.


In oltre un secolo e mezzo di storia, il PIME ha inviato nei diversi continenti oltre duemila missionari; attualmente i membri dell’Istituto sono circa 425 e operano in missioni dislocate in 19 Paesi: Algeria, Bangladesh, Brasile, Cambogia, Camerun, Cina-Hong Kong, Costa D'Avorio, Filippine, Giappone, Guinea Bissau, India, Messico, Myanmar (Birmania), Papua Nuova Guinea, Taiwan, Thailandia e USA. La maggioranza dei missionari è di origine italiana, ma negli ultimi decenni le vocazioni vengono quasi esclusivamente dai Paesi di missione dove storicamente ha operato il PIME: tutte le loro comunità nel mondo sono, ad oggi, multietniche e multiculturali.


Organizzo una videochiamata con Padre Fabrizio, alle 15.30 qui in Italia, le 20.30 in Bangladesh, il quale, con alle spalle un ventilatore acceso e una zanzariera che attornia tutto il letto, inizia il suo racconto. Nato nel 1964 a Monza, diventa prete nel 1991 e viene destinato in Bangladesh nel 1996, dove rimane per vent’anni, fino al 2016, quando viene richiamato per seguire la pastorale giovanile in Italia e per poi tornare nuovamente, nel gennaio del 2021, in Bangladesh.


Alla mia domanda su che cosa significasse per lui la parola “Missione” mi risponde in maniera pronta, “Condividere una gioia…” dice e, continuando in maniera schietta: “…Ma quale gioia? La gioia di avere incontrato il Signore; quando tu incontri qualcosa di bello, quando fai un’esperienza che ti dà gioia, la reazione normale è raccontarla a qualcuno, ridirla, coinvolgere le persone. La parola Missione dovrebbe essere quella generativa per ogni cristiano, se seguire Gesù mi dà gioia come faccio a tenerlo per me e non raccontarlo a qualcuno?”


Per Padre Fabrizio il “condividere una gioia” è fortemente legata ad un’altra parola, vocazione, nel suo caso oltre i confini nazionali; attraverso questa condivisione è possibile infatti far conoscere Gesù nel modo più semplice anche a chi non sa nulla di lui. Ovviamente all’interno di questa parola, “missione”, continua, ci sta molto altro, l’aiuto ai poveri, agli orfani, alle vedove, ai malati, la gestione della parrocchia, il dialogo con i Musulmani, con gli Hindu, tutto però è indissolubilmente legato ad uno scopo ultimo: all’interno di un’esperienza umana far vivere un’esperienza di fede.

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n termini “pratici”, Padre Fabrizio segue i giovani di un ostello, un centinaio di ragazzi, e organizza la pastorale giovanile nella Diocesi; negli anni precedenti, prima di tornare in Italia, ha lavorato molto nell’ambito educativo, soprattutto con i giovani, tenendo a sottolineare che il Bangladesh è un Paese molto giovane e che quindi la crescita di questi ultimi è fondamentale.


Continuando il discorso, spontaneamente, come se fosse più una riflessione personale che una semplice intervista, dice: “Spesso il rischio per noi missionari è quello del FARE perché hai attorno una povertà tale per cui ti viene normale buttarti nelle iniziative sociali, negli aiuti intelligenti, finalizzati a fare in modo che la gente possa camminare con le proprie gambe, il famoso detto “se oggi ti do un pesce domani verrai ancora da me a chiederlo, se ti insegno a pescare ti arrangi da te”, questo vale anche per noi e per quello che facciamo, aiuti finalizzati all’autonomia di sviluppo. Il rischio è di illudersi che soltanto lo sviluppo sociale sia sufficiente: questo sarebbe un tradimento terribile, se avessi la bacchetta magica e potessi portare questi ragazzi ad un livello sociale come il nostro in Italia e poi cosa accadrebbe? Sono stato in Italia fino a poco tempo fa e non ho visto tutta questa gioia intorno a me, lo sviluppo sociale non ti porta da solo lo scopo della vita, un senso profondo della vita, una gioia sostanziale; è necessario lo sviluppo sociale ma non basta, insieme a uno sviluppo sociale è necessario anche uno SVILUPPO UMANO, spirituale, l'annuncio della buona notizia, se non annuncio Gesù insieme all’aiuto, li tradisco” ribadendo: “non basta da solo lo sviluppo sociale”.


Quando gli chiedo di raccontarmi di qualche sua esperienza significativa in missione mi risponde che: “l’esperienza più forte è stata quella di crescere con i ragazzi, vederli crescere, sbocciare, tirar fuori i loro doni, le loro capacità, i loro limiti e vedere la loro fede in cammino”, mi rimanda al libro che ha scritto proprio per raccontare gli aneddoti della sua missione e che si intitola “Il cuore altrove” dove sono contenute “esperienze di fede vissuta, messa in gioco e lezioni di vita solenni”.


A titolo esemplificativo, narra brevemente la storia di Ripon, ragazzo di 18-19 anni che, dopo aver lavorato duramente per una settimana in un campo tagliando il riso, con la paga che prende decide di andare a comprare finalmente un paio di jeans. Ma invece, fa un altro ragionamento… va al bazar, compra anatroccoli e pulcini per poi tornare al villaggio e distribuirli alle famiglie che lui reputa più povere della sua, affinché li possano allevare.


“Ripon ha fatto questa scelta impressionante, con una semplicità e con una decisione spiazzante... Questi sono i Fuoriclasse” afferma Padre Fabrizio,che riporta le parole con cui Ripon aveva concluso il suo racconto: “Padre, io non sono mai stato così felice in vita mia”E noi che ci continuiamo a raccontare e credere alla palla che basta avere per essere contenti” mi dice in tono seccato.


Alla mia domanda su quali fossero le difficoltà, Padre Fabrizio mi risponde che, indubbiamente, ce ne sono molte: “il Bangladesh è un paese difficile, complicato, ansiogeno, la cosa più difficile da gestire all’inizio, insieme all’inserimento in una cultura diversa, all’ imparare una lingua nuova e al non riuscire ad esprimersi e a capire, è la povertà che hai attorno, che ti colpisce allo stomaco, alla faccia e di fronte alla quale non sai che pesci pigliare perché fai l’esperienza della tua povertà. Arrivi da un paese ricco pensando di aiutare ma in realtà scopri che puoi fare pochissimo rispetto ai bisogni, che non puoi aiutare tutti, sembra banale dirlo ma quando hai la fila dei poveri tutti i giorni fuori casa, diventa complicato e c’è un momento in cui rischi di spezzarti, fino a che non trovi il tuo equilibrio, la consapevolezza che puoi fare molto poco ma che quel poco lo devi fare e meglio che puoi. È bello ma è anche difficile, forse la bellezza sta anche nella fatica? Non lo so, però per le cose belle ci sono dei prezzi da pagare e che ti fanno crescere”.


All’ultima mia domanda, su quale fosse una frase che lo accompagnasse o alla quale fosse particolarmente legato, mi risponde “L’amore vince tutto”, di Virgilio, non me la spiega, come se fosse la perfetta conclusione del suo racconto.


La testimonianza successiva arriva direttamente dal “Paese del sol levante”, il Giappone, con la storia di Padre Pavan, missionario del PIME nato nel sud dell’India da una famiglia cattolica di contadini, in un villaggio tradizionalmente cattolico “da 100 anni”, specifica, aggiungendo che “in India non è scontato”.


“Quando avevo 16 anni sono entrato nel seminario del PIME. Conoscevo il lavoro del missionario ma non sapevo le conseguenze di questa scelta, che avrei capito solo successivamente durante il mio percorso di formazione


Nel 2015 Padre Pavan arriva in Italia, a Monza, al Seminario Teologico Internazionale del PIME. Qui impara la lingua e non nega la difficoltà del primo anno in Italia: l’inserimento in una cultura nuova, “occidentale”, vivere in un nuovo contesto, la complessità nell’entrare in relazione con le persone; tutti aspetti che è riuscito ad affrontare al meglio grazie alle relazioni importanti, che ha avuto modo di costruire qui in Italia.


“Per tutti c’è un’idea classica di missione nella testa, con alcuni Paesi di missione nella mente, però, durante la preparazione in vista della destinazione, mi sono reso disponibile dicendo: “mandatemi dove volete”. Mi hanno detto che sarei andato in Giappone e ho detto si, vado, pur non sapendo cosa sarei andato a fare”.


Pavan prosegue il suo racconto parlando del primo impatto con il Giappone: “All’inizio è stato stupendo, sono arrivato a novembre e a dicembre sono andato a visitare le missioni nelle città di Fukuoka, sull’isola di Kyushu, e Hiroshima, dove lavorano altri padri del PIME; con il tempo la mia mentalità è iniziata a cambiare, così come tutti gli stereotipi sul Giappone, osservando soprattutto lo stile dei missionari. Dopo il Natale sono tornato a Tokyo e, per poter imparare la lingua, ho cominciato la scuola di giapponese, che conta circa 300 giovani, provenienti dall’Italia, dalla Spagna, dalla Svezia, dagli USA e da altri Paesi, giovani che vengono in Giappone a lavorare; i primi 6 mesi sono stati difficili, ma non ho mai pensato di andarmene, sono sempre stato felice.”


“La lingua è impegnativa, dopo la scuola ogni giorno bisogna studiare almeno 3-4 ore ma, come dicono i nostri missionari, quando impari la lingua bene riesci a parlare con la gente e poi la gente inizierà a fidarsi di te”.


Riporta che il problema principale è “trovare gli amici” e “avere un ambiente che ti accetti”: “in India il modo di fare amicizia è diverso rispetto all’Italia e ancora diverso rispetto al Giappone, è più difficile perché le persone si aprono meno facilmente quindi serve tanto tempo per capire come comportarsi con l’altro, capire cosa si può dire e cosa ferisce, ci vuole tanto tempo, serve pazienza”.


E, alla domanda, rivolta anche a Padre Fabrizio, sul significato della parola missione, Padre Pavan risponde così: “Per me missione non è l’idea tradizionale di andare a convertire, costruire le chiese e così via; la missione è rispondere alle necessità che si incontrano, pur avendo delle idee di cosa fare mi rendo disponibile nella situazione nella quale sono inserito e, se qualcosa mi viene richiesto, lo faccio”.


Continua dicendo: “missione è parlare di Gesù, dell’esperienza di Gesù, in qualsiasi situazione, sia in parrocchia, sia in un bar, a scuola o con i tuoi amici. Ad esempio, i miei compagni di scuola provengono da Paesi diversi e ognuno di loro ha una religione differente; mi è capitato più volte di parlare con un compagno della Thailandia, buddista, e con un altro ancora del Messico, cattolico. Quando parliamo io condivido i miei pensieri, qualche pensiero cristiano, parlo della natura, del modo di pensare, di quello che accade nel mondo, focalizzando l’attenzione su quelli che soffrono, non tanto per dire che sono un prete ma per proporre un altro modo di vedere la realtà circostante”.


Conclude l’incontro con una frase che lo accompagna ormai da tanti anni: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, frase che, mi dice, ha cambiato il suo modo di pensare, di agire, e che è, sottolinea: “vicina al mio cuore”.

Dalle parole di Padre Fabrizio e Padre Pavan non abbiamo ricavato un’unica risposta alla domanda iniziale sul significato della missione, ma sicuramente abbiamo scoperto tanti piccoli elementi che compongono il mosaico dell’essere missionari, elementi semplici ma non scontati, perché richiedono una grande apertura verso gli altri, una profonda umiltà e, soprattutto, la consapevolezza di avere un punto di vista parziale della realtà che ci circonda, che non è necessariamente il migliore, anche se spesso riteniamo che lo sia.



Autore: Michele Goisis


 
 
 

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