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Voci dal verbo “migrare”





<<Ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere se stessi>>.

J.B. Pontalis


Che voi ci siate o meno, a noi cosa viene in tasca? Voi, con le vostre storie che sanno di polvere e i vostri destini scritti in faccia, a pezzi come la terra da cui partite. Voi, che avete addosso l’odore di un mondo che vogliamo dimenticare. E che abbiamo dimenticato. Bussate alla nostra porta e avete l’ardire di chiederci un domani migliore. Quando qui, di domani, non ne abbiamo a sufficienza per i nostri figli. Non partite. Statevene all’ombra delle rovine che chiamate casa, ed evitate di barattare le vostre vite con bagnarole buone appena ad affondare. Tenetevi stretti i vostri risparmi, usateli per ricostruire quello che avete perduto. Qui, non abbiamo più prime pagine per voi, né dita da puntare quando i vostri corpi fanno dei nostri mari cimiteri. Qui, non abbiamo più lacrime per voi.

Vi aiuteremo, ma senza guardarvi in faccia.


Mentre scrivo, sono 79 le vittime del naufragio di Steccato di Cutro. Il bilancio non ha fatto che aggravarsi con il passare dei giorni, e di certo non sono in vista buone nuove. I pochi temerari che hanno letto i miei articoli precedenti sanno che mi piace stuzzicare e giocar d’ironia, ma devo confessare che oggi mi riesce molto difficile. Sarà perché domani è lunedì, e tutti sono più giù di corda, o perché ho dedicato mesi della mia vita allo studio del fenomeno migratorio, senza poter arrivare a dire: “So cosa bisogna fare, ho la soluzione”. Tutti vogliono le soluzioni, che diamine. Che si compra a fare la settimana enigmistica se non per accertarti di aver dato le risposte giuste? In fondo, cerchiamo di capire qualcosa solo per il gusto di poterlo controllare: se so spiegare cosa è successo, vuol dire che posso metterci una pietra sopra. E se non sono in grado di dare spiegazioni, allora almeno devo trovare un responsabile.


“Lo soccorri tu? Io?”


“Me l’hai segnalata, la barca, ma io mica ho ricevuto l’avviso”


“Che poi non è vero: lo dici tu che l’hai segnalata! Per me, nessuno ha visto niente e siamo arrivati tardi”


“Perché no? Trasferiamo il Consiglio dei ministri direttamente a Cutro. Ci commuoveremo da vicino e tutti si convinceranno della nostra buona fede. Facciamo la voce grossa e tuoniamo: “Basta con il traffico di esseri umani! Ci vuole fermezza”.


“Perché non li selezioniamo?”


“Se parti, devi assumerti le tue responsabilità”


“Altro che blocco delle partenze: la soluzione sono i corridoi umanitari!”


Fanno rumore, vero? No, non è una cover malriuscita della canzone di Diodato. Le voci sono vere, ho solo fatto un minimo sforzo di traduzione (anzi, per alcune non è neanche servito); chi li vuole veder partire, chi invece no, chi sì ma alle sue condizioni: cos’è questo, se non controllo? Controllo sull’uomo, sul suo fagotto emotivo e coscienziale, sulla sua storia e le sue relazioni. Dimentichiamo, per una benedetta volta, la lotteria delle colpe e trattiamoci da spettatori, quali siamo, di fronte a qualcosa di ben più grande di noi.


La migrazione non è solo il pellegrinaggio dei disperati, ma l’aratro con cui l’uomo ha sempre dato forma a un mondo da chiamare suo. Dalle campagne alle metropoli, dalle periferie ai centri, dai Sud ai Nord: l’errore che si commette è quello di considerarsi gli unici ad avere a che fare con tutto questo. In questo momento, stando a quanto ne dicono Valerio Calzolaio e Telmo Pievani, oltre un miliardo sugli otto che popolano la Terra è migrante, e noi ancora ci ostiniamo a parlare di blocchi e corsie preferenziali.

E quando lo facciamo, ci imbellettiamo con cifre e statistiche, con leggi e trattati, economie e flussi: rimuoviamo l’umano, direbbe Armando Gnisci, uno che della materia un po’ se ne intende. Chi parte non è un pacchetto di diritti, o un rotolo di banconote date al primo scafista che se ne approfitti; è un volto, una memoria, con le sue strade e i suoi indirizzi incisi tra le pieghe della coscienza. Può morire, se parte, e questo lo sa. Eppure continuiamo a trattarlo da sprovveduto, come se non avesse le facoltà di calcolare rischi e benefici, di pesare la caduta o il salto e di basare su questi le sue decisioni. Non è nostro il corpo che viene recuperato dagli abissi, o la gravidanza messa a repentaglio su un barcone sovraffollato.


Con speculazioni e retoriche da campagna elettorale, da una parte e dall’altra, si fa a fette la realtà e si privano migliaia di persone dell’unica cosa che di certo portano con sé nel viaggio tra i mondi: la facoltà di chiamare proprio il destino che scelgono, sia anche di sventura. È l’umano, al massimo della sua libertà. Quando penso a chi percorre le vie della migrazione, mi immagino notti spese a discutere sul da farsi, dubbi, chiacchiere macinate nel tentativo di convincere o dissuadere. E poi la lungimiranza, e la fatica, di mettere da parte spicciolo dopo spicciolo, magari per mesi, prima di consegnarli nelle mani dei traghettatori. Me li vedo, a informarsi da parenti e amici su cosa troveranno una volta sbarcati sulle sponde di quell’Italia tanto invocata. Il dolore della separazione si mischia alla voglia di vivere un futuro a carte ancora coperte. Ma noi no, noi dobbiamo controllare anche il modo di posare un piede dopo l’altro.

È indubbio che molti cadano nelle trappole di truffatori e contrabbandieri di carne, pronti a vendersi l’un l’altro per qualche moneta in più; li chiamano trafficanti, scafisti, e nel nostro immaginario da pantofolai tuttologi occupano lo spazio del cattivo senz’anima, consumato da anni di nefandezze commesse sulla pelle di migliaia di innocenti. Trovane uno così, e avrai fatto il colpo grosso: ti basterà per darti le risposte che cerchi e puntare il dito che tanto ti prude. Gli scafisti, ecco chi sono i malvagi antagonisti di tutta questa faccenda! Diamogli la caccia, bracchiamoli fino all’ultimo angolo di globo terracqueo, questi figli di cane! Non ci viene in mente, neanche per un secondo, che persino a questi uomini possa essere riconosciuto il beneficio del dubbio: lo fanno per istinto criminale? Per brama di denaro e di potere? Perché godono nell’infliggere miserie al prossimo?

Certamente esistono casi di questo tipo, ma sono una minoranza. Questi uomini, in larga parte, non sono professionisti del male a tempo pieno: sono chicchi di grano a un centimetro dalla macina, che fanno di tutto per sgomitare in mezzo alla folla dei condannati e restare a galla quell’attimo in più. Forse, i motivi che spingono i loro fratelli a partire sono gli stessi che avvicinano loro alla criminalità. O forse vengono circuiti da chi è più grande di loro nel gioco di mafie che nutre, ed è nutrito, dal traffico di essere umani.


Ne ho però anche per i fan dei mirabolanti corridoi umanitari. Chi si gonfia il petto gridando all’accoglienza indiscriminata non è meno miope dei cacciatori di trafficanti. Sponde opposte, stessa fretta di banalizzare: la migrazione non è mai una linea da A a B, che si chiude semplicemente con il trasferimento di pacchetti di carne umana da un punto all’altro del pianeta. È un processo che si riverbera sull’identità dei singoli e delle comunità, un lavorìo sui confini interiori e relazionali; come tale, abbraccia diverse dimensioni, di cui quella fisica è solo la crisalide. C’è la collisione culturale, linguistica, spesso quella religiosa: per alcune etnie viaggiare nello spazio porta con sé un nuovo modo di vivere il proprio tempo, un nuovo senso da dare alla parola “moderno”. Troppo facile pensare che tutta la questione si riduca a garantire l’arrivo in Italia o in Europa: non si parla di carri bestiame, o di colli di merci. Si parla di uomini e donne, giovani, meno giovani. Un corridoio umanitario acquista valore, e ha davvero motivo di esistere, solo se da mezzo diventa possibilità: di muoversi, certo, ma anche e soprattutto di realizzarsi e realizzare, costruire senza essere demoliti, aggiungere senza pesare.


La migrazione, in fondo, è la creazione di uno spazio di comunicazione tra differenze, e ci parla di quanto di più complesso si può chiedere a un uomo: trovare casa nell’altro, e contemporaneamente farsi straniero da se stesso. Non c’è futuro nei modelli di assimilazione per come si riscontrano oggi in alcuni Paesi d’Europa, come l’Italia, in cui la sola alternativa che si offre all’ospite è concepire se stesso a immagine del padrone di casa. L’integrazione, per come la vedo io, ha sempre avuto una “g” di troppo, che cambia tutta la faccenda. Se ti integri, infatti, ti muovi senza che dall’altra parte ti si venga incontro. Corri per imparare a diventare immobile come chi ti sta davanti. Se interagisci, invece, ti incontri a metà strada: patteggi, magari litighi, contratti. Se hai in mente una strada, puoi decidere di cambiarla, o a maggior ragione convincerti che sia la sola a condurti a destinazione. Poi muovi il primo passo, e con te porti piccole briciole dell’altro che ti è passato accanto.


Suonerà poetico, ma dietro trattati e strette di mano tra potenti si deve nascondere la volontà di prendersi cura dell’umano che sta nell’uomo, dei molti che stanno nell’uno. Sotto la pelle, dietro gli occhi, siamo sempre plurali. E quando chiediamo salvezza, tutto di noi va salvato. Perché quando moriamo, muore tutto di noi.




 

Autore: Alessandro Ghidini




 
 
 

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