Il diritto ad essere infelici
- Accorciamo le distanze
- 27 ott 2021
- Tempo di lettura: 8 min

Settimane fa bazzicavo sui social in cerca di modi appetitosi per far passare la giornata nel deserto padano di inizio agosto. La noia è contagiosa e, a quanto pare, l’estate di chi si ostina a rimanere nell’interland milanese si diverte ad impollinare i suoi tenaci residenti con i germi di un ozio sonnolento e fiaccante: ti svena. In preda a questo demone succhiasangue, scrollavo i post di Instagram stando attento a non pigiare il cuoricino rosso su foto di chi sta a sorridere a bordo piscina con un prosecchino ghiacciato in una mano e l’altra impegnata ad officiare il rituale del selfie. Combattevo la tentazione di perdere il mio tempo in un modo più intelligente. Oppure si può dire che allenassi duramente l’indice destro, si sa mai che le Olimpiadi si aprano ai duecento post stile libero. Un’inserzione si immischia tra me e i miei traffici d’invidia:
“Vuoi ridare valore al tuo tempo?”
-Magari... sapessi.
“Vuoi tornare ad essere padrone della tua vita?”
-Non me lo devi neanche chiedere.
“****** ti offre un corso gratuito di dieci lezioni per accrescere l’autostima e condurre una vita all’insegna dell’equilibrio e della felicità”.
Poco sotto, un’iniziativa concorrente ne proponeva cinque, di lezioni, più un pacchetto omaggio di due webinar e l’infallibile manuale del benessere interiore. Mi si apriva davanti, a portata di sito web, la via del vivere felice, di quel nirvana a lungo cercato e per ora trovato soltanto in un testo di Francesco Gabbani. O meglio, di vie ne ho trovate almeno una decina in pochi minuti, ma se tutte le strade portano a Roma, tanto vale mettersi in cammino. Ma questa Roma esiste poi davvero? Ha senso affannarsi alla sua ricerca, sudare per raggiungerla, esaltarsi alla vista delle sue rovine? Dopotutto, una volta che ci arrivi e scatti due selfie, cosa ti rimane da fare? Di nuovo quel senso di noia nauseabonda. Mi rimetto a scrollare i post, ma qualche meccanismo di autolesionismo mi intima di osservarli più da vicino, più nel profondo. Sorrisi, feste, compagnia, frasi motivazionali miste a citazioni di wikiquote e dediche che potrebbero garantire la prosperità della musica neomelodica per almeno un altro paio di secoli... Allora questa Roma esiste davvero, hanno tutti l’aria di esserci stati. L’aria di chi torna da Lourdes e appoggia la sua bottiglia di acqua benedetta sul comodino per ricordarsi di essere un miracolato.
Sciocchi.
Ammettiamolo, i giudizi affrettati ci piacciono, ci titillano, ci istigano a commettere atti impuri come un dislike o un commento che mostri la nostra malcelata superiorità. Se siamo davvero così felici, perché viviamo del bisogno di giustificarci? Per rispondere a questa domanda ho provato a frugare tra memorie universitarie e trattati di sociologia, ma in fin dei conti non ci sono venuto a capo. Quello che qui vi propongo è quindi qualcosa di infinitamente inutile, che a me piace definire sproloquio in riga, perché le cose messe in riga si sa che vanno più di moda.
Le trasformazioni che il nostro globo terracqueo ha subito in seguito alla rivoluzione industriale sono, oltre che arcinote, talmente lontane da noi abitatori della rete che sembrerebbe superfluo ricordarle. Che ce ne facciamo del telegrafo, della locomotiva a vapore e delle fabbrichette, noi che siamo abbonati ad Amazon Prime e ci videochiamiamo su Zoom per non sprecare i minuti della nostra tariffa Iliad 50 gb a soli 7,99 € al mese? Eppure, proprio due secoli fa si aprivano le fucine di un mondo nuovo, di nuove modalità di intendere l’umano e la sua vita in comunità. Il mercato, signore e signori: le sue leggi hanno dettato le regole del gioco a cui noi ominidi sentiamo il bisogno tuttora di consacrarci. Un gioco semplice, e quantomai spietato. A rigor di logica, ci si aspetterebbe che il ciclo di vita del mercato si esaurisca in un’instancabile botta e risposta tra domanda ed offerta, così che ad ogni bisogno corrisponda un servizio o una merce in grado di soddisfarlo. A me suona fin troppo banale, ma in fin dei conti non sono un economo, né un filosofo particolarmente acuto. Ho sempre fatto fatica a leggere il mondo per equazioni, per numeri e statistiche. Il difficile, per me, è che ci sia una risposta tanto autorevole da porsi come verità incontrovertibile: alle risposte giuste preferisco le giuste domande, e non sempre all’una corrisponde l’altra. La mia domanda è semplice, elementare: e se non avessi bisogno di nulla, crollerebbe tutto? Certo, sarebbe utopico immaginare una vita completamente autosufficiente, ma fate finta che stia delirando, compatitemi. Proviamo a rigirare la frittata e vedere se funziona: se io ti offro qualcosa, è perché io ho bisogno che tu ne abbia bisogno. Suona male, vero? Ci provo con altre parole, magari più ortodosse. La disponibilità di un’offerta instilla nel bacino della possibile clientela la convinzione di essere mosso da un’esigenza reale, da un bisogno da soddisfare. Il ciclo domanda-offerta risulta così invertito: l’offerta non genera la domanda, ma le condizioni socio-culturali (e aggiungerei anche psicologiche) affinché essa si manifesti. In breve, il mercato gioca su bisogni indotti, presentati come inevitabili e perciò naturali: ecco che le leggi di mercato si elevano a leggi di natura. Per noi è normale (uso questa parola nonostante la fiera avversione che provo nei suoi confronti) concepire l’esistenza rapportandola alle possibilità offerte dal mercato, è normale muoversi all’interno del recinto di ciò che è acquistabile, consumabile, economicamente vantaggioso e utile. Perché sì, siamo le ultime covate di un prototipo umano partorito dall’avvento dell’industrializzazione, con tutto il suo seguito di figli illustri quali il capitalismo, la società di massa, la globalizzazione. Se mi allargo troppo, è per convergere su aspetti che altrimenti sarebbero difficili da contestualizzare. Facciamo un esempio. È inevitabile che l’induzione di bisogni preconfezionati tenda a livellare le eterogeneità in seno ad un qualunque gruppo sociale. Se intravedo, nel salotto del mio vicino, una strana scatoletta che emette suoni e contiene immagini del mio teleromanzo preferito, domani piazzo lì una qualche domanda disinteressata, giusto per sapere, e a fine mese, satollo di stipendio, acquisto la mia televisione. Mi serviva, i ragazzi me la chiedevano, la moglie mi implorava, i colleghi mi davano del preistorico… Si chiama omologazione, ed è uno dei tanti spiritelli impertinenti ma assai pericolosi usciti dal vaso di pandora industriale-capitalistico. La vendita della televisione ha fornito nuove coordinate al concetto di intrattenimento, inaugurando la stagione delle partite sul divano: e chi non ne sente il bisogno adesso? Sembra innocuo, ma questo processo è tutt’altro che privo di insidiose conseguenze. Prima fra tutte, l’uniformarsi a paradigmi mentali e culturali eletti come quintessenza della normalità. Si seguono pedissequamente modelli quanto più condivisi, si fa numero attorno a comportamenti e approcci considerati giusti proprio in virtù della loro diffusione. Nell’epoca delle massime libertà democratiche, ci si vanta di essere padroni delle proprie scelte ma si rimane legati alla cuccetta calda della normalità, quella che tutti definiscono come tale, quella che non può non essere così. È utile pensarla in questo modo, non trovate? È utile iscriversi all’università perché ti permette di trovare un lavoro meglio retribuito. È utile assumere uno stagista perché gli si dà l’opportunità di imparare un mestiere. È utile pubblicare post quotidianamente perché aumentano le visualizzazioni e sempre più persone sono spinte a seguire la tua pagina dei migliori antipasti mai assaggiati. Sapete, mi piacerebbe definire l’utilità come un altro spiritello impertinente, ma lo sottovaluterei enormemente. In tutta onestà, la temo. L’utile ha diviso il pianeta in mondi su diversi gradini di rilevanza, ha annebbiato le menti e fatto tacere le coscienze. Ha saputo costruire a sua immagine e somiglianza i fantocci del giusto e dello sbagliato, lo dimostra Treccani, che definisce il “male” come “cosa non buona, quindi ingiusta, non utile”. In questi mesi si è sentito spesso parlare di dittatura, secondo alcuni sanitaria. Una dittatura esiste, è sotto gli occhi di tutti, ma sulla bocca di nessuno: è la tirannia dell’utilità. L’eredità forse più ingombrante del modello capitalistico è il culto dell’utile, inteso come condizione necessaria e sufficiente a cui va sotteso il moderno concetto di valore. È ben più di una forma mentis: si parla di una teologia, di un sistema definito di divinità ed idoli che costantemente muovono la più estesa comunità di fedeli mai esistita. L’ecosistema sociale a cui quest’ultima ha pertanto finito per dare vita è retto dai simulacri dell’efficienza, della produttività, della resilienza e dell’ottimismo, correi nel processo di trasfigurazione agonistica che sta inesorabilmente affettando la nostra società. Si corre, si lavora, si ama, si studia all’ombra dell’ideale della perfezione meccanicistica, quasi ci si dimenticasse che l’uomo non nasce in piedi come i cavalli, non è fatto per la competizione. Ed è così che, gettati in mare a forza, si impara a nuotare, no? No. Gettàti in mare a forza la scelta si riduce alla sopravvivenza: o affondo o galleggio. In un certo qual modo, penso che la felicità che oggi tanto si cerca e si ostenta non sia altro che una tecnica di galleggiamento. Certo, ce ne sono delle altre, anche peggiori, come l’indifferenza o l’apatia, la menzogna. Ma, tutto sommato, di queste ce ne accorgiamo subito e ce ne allontaniamo. Chi si mostra felice, invece, è contagioso. Ci sorprende nelle nostre più intime crepe ad affliggerci dell’incapacità di provare lo stesso entusiasmo, lo stesso prodigioso attaccamento alla vita: perché non posso essere anche io così? L’essere umano è inutile, signore e signori. Nasce inutile, vive inutilmente e muore nello stesso modo. E allora si costruisce dei salvagente emozionali e psicologici che lo possano tenere a galla, e più galleggia e più si convince di aver in realtà imparato a nuotare. Se bastasse questo, sembrerebbe perlomeno dignitoso provare a scamparla così. Certe volte, però, qualcosa si sgonfia, qualche forellino ci obbliga ad abbandonare i braccioli e a continuare a bracciate. Se si è fortunati, qualcuno vicino lo si trova, ci si avvinghia e si viene trascinati: il partner, la famiglia, gli amici, i colleghi. Si tira il fiato sulle spalle di altri e si prova a rammendare alla buona il proprio canotto, tanto prima o poi la traversata finisce e si viene ricompensati per la fatica. Se invece si è meno fortunati? Il dio dell’efficienza non è misericordioso, non prova pietà: ti lascia affondare persuadendoti di essere tu la causa del naufragio, perché l’errore di valutazione l’hai fatto tu, e se vai a mollo lo devi solo al tuo non essere abbastanza. C’è una frase che mi affascina da quando l’ho letta per la prima volta. La si trova sparsa tra le bestemmie e le oscenità di Viaggio al termine della notte, scritto da quel Céline condannato alla damnatio memoriae per antisemitismo.
<<La miglior cosa che puoi fare, no?, quando sei a ‘sto mondo, è di uscirne.>>.
Lì per lì la consideri come l’ennesima esaltazione dell’artista stravagante, o del ricoverato in psichiatria che si spaccia per anticonformista. Riflettendoci, però, la trovi più assennata di quanto si possa pensare: uscire dal mondo può non voler dire per forza estraniarsi in fantasie e deliri, ma piuttosto rifiutarsi di far parte di un certo indirizzo di pensiero, di valori, di una concezione precisa relativa al nostro esistere e al mondo stesso. Allora tanto inutile non sei, se ti rendi conto che non ti importa di esserlo a quel modo. Forse, non è importante imparare a nuotare, o forse bisogna semplicemente cambiare corsia della piscina. L’uomo nasce inutile, ma è l’unica creatura in grado di estrarre da sé un senso ed una destinazione, di vivere in perenne oscillazione tra timori, piaceri, godimento e catastrofi, cambiando ad ogni passo. Per questo mi arrischio ad arrogarmi il diritto di piangere, di disperarmi, di mostrarmi fragile, di lasciarmi andare alla malinconia o alla rabbia, di essere infelice. Sarebbe una grave mancanza di rispetto nei confronti delle nostre potenzialità privarci dei destini che possono nascere da qualche lacrima, o da una giornata trascorsa al buio di pensieri che ci spaventano. La felicità è un’invenzione umana, e spesso mi capita di crederla simile ad un universo: ci puoi immaginare di tutto, se non ti intestardisci sui confini.
Autore: Alessandro Ghidini
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