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Trieste: approdo di genti e regimi

Prima di iniziare la lettura ti consigliamo di dare un'occhiata alla descrizione del progetto.

Foto 1: Trieste fotografata da un sommergibile austriaco del 1917

Foto 2: L'esercito italiano entra a Trieste nel 1918

Foto 3: Mappa di Trieste pubblicata in Germania nel 1926

Foto 4: Il Duce parla nella Piazza Unità di Trieste nel 1938

Foto 5: Dogana di Trieste dopo la liberazione dovuta alla fine della Seconda Guerra Mondiale

Foto 6: Trieste torna all'Italia nel 1954


Trieste si affaccia al ventesimo secolo come un porto di mare. Detiene lo status di porto franco dal Settecento e ciò ha favorito la mescolanza di culture e genti, ma un’anima così poliedrica non può che portare a un cuore diviso. Incerta persino sulla propria identità territoriale, la città guarda ora davanti, verso l’Italia, ora indietro, verso l’impero austro-ungarico. Benché appartenenti a questo sulla carta, non tutti i triestini sentono tale condizione come propria. I disordini scaturiti da tale spaccatura etnico-sociale erano già stati aggravati dalla politica di germanizzazione e slavizzazione a discapito della componente italiana della cittadinanza, con conseguenti violenze, deportazioni e censure. L’autonomia della città era ormai ridotta: bocca chiusa e obbedienza era l’ordine viennese. La convivenza tra i vari gruppi etnici che aveva caratterizzato Trieste per secoli ora era condannata.

Nel 1918, in piena Prima Guerra Mondiale, il Regio esercito italiano entra in città e due anni dopo, non senza asprezze, Trieste entra a far parte dell’Italia. Non è comunque un periodo molto sereno: l’annessione ha provocato perdite nell’economia ancorata all’entroterra e in generale le guerre impoveriscono i commerci, la maggior entrata economica della città. Inoltre quel poco di sicurezza identitaria che aveva Trieste viene stravolta dalla nuova configurazione linguistica e culturale. L’avvento del fascismo non fa altro che aumentare il disagio socio-economico e una situazione politica già tesa.

In questa Trieste nasce Irene Camber, il 12 Febbraio 1926. Una città dilaniata dall’interno e dall’esterno, che nella Seconda Guerra Mondiale subirà l’occupazione nazista e la resistenza partigiana. Deterrà il triste possesso dell’unico campo di concentramento nazista su territorio italiano. La liberazione di Trieste da parte di neozelandesi, jugoslavi e partigiani sarà il teatro per la presa di Tito sulla città. Un regime lasciato per un altro regime, lasciato per un altro ancora: sembra che Trieste sia destinata a repressioni e soprusi, un fato le cui catene verranno portate dai triestini ancora per decenni.


Per fortuna Irene, complice la tenera età, non si lascia inghiottire da queste tenebre e raccoglie il meglio che la città può offrire:

<<Sono nata in un ambiente interrazziale e multiculturale, a contatto da sempre con diverse nazionalità. Trieste in quegli anni era davvero un “porto di mare” in tutti i sensi. Qui ho imparato a tralasciare il pregiudizio e a non considerare le diversità di cultura, usanze e abitudini>>.



Un pensiero speciale va a Matilde. Grazie per la tua disponibilità e per averci mostrato, attraverso l'obiettivo e lo sguardo da nipote, la tua Irene.

 

Fotografie di: Matilde Corno


Monza, 1995. Dopo il liceo classico si trasferisce a Londra e si laurea in

Photojournalism and Documentary Photography alla LCC, London College of Communication, con tesi sulla fotografia dronica e la differenza tra il suo uso bellico e il suo uso artistico. Il progetto fotografico di laurea “FM105,4: radio magic” racconta lo scenario pagano del XXI secolo in Inghilterra, con un mix di ritratti e paesaggi mistici. Dopo aver viaggiato in Sud America, torna a Monza, dove insegna in una scuola elementare e fa l’assistente al fotografo Marco Valli.

Oggi lavora presso uno studio di fotografia analogica a Precotto, Milano. Nel 2020 vince il Premio Riccardo Prina “un racconto fotografico” permettendole di fare la sua prima mostra individuale al museo MAGA di Gallarate.


Contatti:

MAIL matilde.corno@gmail.com



Autore dei testi: Bianca Calvi




 
 
 

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